L’amico della mia amica
può non piacere a tutti, come in genere il cinema di
Rohmer
che forse molti rifiutano proprio per la sua "giovinezza": e infatti è
tenero e crudele, semplice e complesso, innamorato della superficie e in
bilico sull’abisso. Queste sono anche le qualità dei suoi sempre giovani
personaggi, soprattutto delle sue donne, incantevoli e indifese, eppure
d’affilato acciaio nella loro esplorazione dei sentimenti. Come loro, il
cinema di Rohmer parla con voce sommessa, ma dice cose che arrivano a
ferire fino in fondo al cuore. Léa e Blanche hanno poco più di vent’anni,
l’età che sta sulla soglia tra la prima giovinezza e quella che sarà, per
sempre, la vita di ognuno. Dunque, Léa e Blanche stanno scegliendo, o così
immaginano.
Scelgono e decidono in quel territorio sconosciuto e difficile
che è la passione: l’attrazione dei corpi, i fantasmi che danno forma al
desiderio e l’angoscia che ne viene. […] L’una e l’altra, insieme maestre
e allieve, si tengono per mano in un’avventura che nessuna ancora conosce
davvero. Cosa cerca Rohmer in questa loro avventura? “Nel mio film -
ha detto a proposito di
L’amico della mia amica
-
cerco l’anima dei personaggi” (per questo un apologo sulla passione
può essere girato senza che nulla o quasi venga mostrato dei corpi). E
cosa è quest’anima? […] Rohmer non è uno di quei cinematografici noiosi
moralisti, che considerano la cinepresa nulla più che uno strumento di
analisi del mondo, uno strumento di conoscenza. Ma essa è per lui ben di
più : uno strumento di creazione. Come un grande architetto, Rohmer parte
da un’idea, da un’ipotesi, da un artificio attorno al quale poi
costruisce. E infatti l’anima che egli cerca in Léa e in Blanche è
“un’idea” sulla giovinezza, “un’ipotesi” sulla passione […] Come negli
altri suoi film, anche qui Rohmer muove poco la cinepresa, preferendo
invece le immagini statiche. Un po’come se non dovesse essere il cinema a
rincorrere la vita e a copiarla per conoscerla, ma fosse proprio la vita a
doversi adattare alla “forma” del cinema, a una sua idea e a una sua
ipotesi. Così, lo sguardo della cinepresa ha spesso la prevalenza sui
personaggi: essi entrano e escono dall’inquadratura immobile, che vive già
un attimo prima della loro comparsa e ancora un attimo dopo la loro
scomparsa. Eppure, nonostante la prevalente immobilità delle sue
inquadrature, il cinema di Rohmer affascina i nostri occhi, che si muovono
in continuazione sullo schermo, attratti ora da un punto e ora dall’altro,
ora dal volto di Léa e ora da quello di Blanche, o magari da un
particolare inanimato che, per magia, diventa il centro dell’immagine.
Questo movimento interno all’inquadratura è appunto il risultato di quell’idea
e di quell’ipotesi attorno alle quali l’architetto-poeta Rohmer costruisce
la sua opera. |