novembre 2016

periodico di cinema, cultura e altro... ©

n° 41
Reg.1757 (PD 20/08/01)

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La sezione CINEASTI DEL PRESENTE del Festival si propone come uno “spazio di ricerca e di scoperta”, presentando opere di registi più o meno emergenti, accomunati dalla tensione verso un linguaggio innovativo e operanti anche in ambiti diversi dal cinema: dalla videoarte al documentario.
Due artisti, più noti forse nell'ambiente dell'arte contemporanea, hanno presentato le loro opere: Douglas Gordon con
I had nowhere to go e Yuri Ancarani con
The Challenge.

   Douglas Gordon, artista poliedrico, di fama internazionale ha diretto un film incentrato sulla figura di Jonas Mekas, regista di culto dell' ”avanguardia americana”, la cui voce, su uno schermo prevalentemente nero, racconta la sua fuga dalla Lituania alla fine della Seconda Guerra Mondiale e i cinque lunghi anni trascorsi da profugo in una Germania in fiamme, da Wiesbaden a Kassel, prima di approdare a Brooklyn.
Una riflessione sul tempo, o meglio sulla percezione soggettiva di esso, caratterizza molte delle opere di questo artista, in particolare quelle in cui egli agisce sui fotogrammi di celebri film, la più famosa 24 Hours Psyco.
Il tempo, questa volta della memoria, è il filo conduttore anche del film presentato a Locarno, un tempo quindi non lineare, ma che si sposta dal presente al passato e viceversa, seguendo il percorso del pensiero di chi racconta le sue storie. Storie soprattutto di guerra, di campi profughi, di bombardamenti, di fame, di cui l'immaginario cinematografico (e non solo) è saturo. Di qui la scelta di Gordon di non accompagnare le parole, già di per sé fortemente evocative, di Mekas con delle immagini, ma di squarciare ogni tanto lo schermo nero con visioni, che rimandano, anche se non in sincrono, a ciò che viene raccontato: patate e rape (l'unico pasto dei profughi), uno scimpanzé tristissimo (l'unico animale dello zoo sopravvissuto al bombardamento di Amburgo) o con suoni che riproducono l'orrore dei bombardamenti.

Questo rifiuto dell'immagine si ritrova anche in altri artisti contemporanei, che lavorano sui suoni, gli odori, ecc. In particolare l'opera di Gordon si avvicina in questo a una straordinaria installazione dell'artista canadese Janet Cardiff, presentata a Documenta 13 a Kassel, dove l'orrore e l'angoscia della guerra vengono proposti ai visitatori unicamente attraverso dei suoni e delle voci, che rompono il silenzio di un boschetto del Federicianum.
Altrettanto suggestiva e coinvolgente è apparsa l'opera di Gordon, in cui la bellissima voce del novantaquattrenne Mekas, qui in veste non di artista famoso, ma di profugo, è riuscita ad inchiodare fino alla fine di fronte ad uno schermo nero per 100 minuti gli spettatori, trasformati testimoni silenziosi di un dramma universale (pare che le fughe dalla sala durante la proiezione siano avvenute soltanto alla proiezione per la stampa!!!).
“La gioventù di questo cineasta fondamentale, che era appena riuscito a fuggire al peggior incubo del secolo, rappresenta la storia di un emigrato che non potrà mai ritornare a casa e la cui solitudine nel Nuovo Mondo è emblematica di ciò che Freud aveva definito “l'ordinaria infelicità” nelle metropoli.” (Douglas Gordon)

Se il film di Gordon è sicuramente una delle cose più interessanti viste al Festival, non altrettanto riuscita è apparsa l'opera di Yuri Ancarani The Challenge.
Artista più giovane e meno noto di Gordon, ma molto promettente nell'ambito della videoarte, l'italiano Ancarani è conosciuto soprattutto per due cortometraggi: Piattaforma, prodotto da Maurizio Cattelan e presentato a Venezia nel 2011 e San Siro del 2014, entrambi caratterizzati da una singolare modalità di esplorazione dello spazio (l'interno di una camera iperbarica in una piattaforma per l'estrazione del gas nel primo e lo stadio di San Siro vuoto la seconda) condotta in soggettiva di uno sguardo fantasma, che conferisce a questi spazi vuoti una connotazione straniante.

Lo spazio è protagonista anche del film (il suo primo lungometraggio) presentato a Locarno: lo spazio del deserto del Qatar. Il punto di vista qui è però esterno e solo nelle ultime bellissime sequenze sarà lo sguardo libero di un falcone a guidare la visione dall'alto delle distese del deserto.
Il resto del film appare più come un documentario ben confezionato, che offre immagini molto suggestive nel mostrarci un mondo sicuramente per noi occidentali sorprendente, in cui emiri ricchissimi scorrazzano con lussuosi fuoristrada e Harley Davidson per il deserto (mentre soltanto i turisti si muovono sui cammelli) o portano i loro falconi su aerei privati, accompagnati da leopardi, ronfanti come gattoni, come animali di compagnia.


Il film racconta un raduno di allevatori di falchi da caccia per un torneo nel deserto. Se lo scopo di Ancarani era quello di far emergere la singolare convivenza all'interno del nuovo mondo arabo di elementi della modernità con lo spirito della tradizione, che pur sopravvive (la caccia col falcone), esso è stato raggiunto, ma senza purtroppo comunicare niente di più di un messaggio scontato, a cui il linguaggio non aggiunge alcun significato ulteriore.

Cristina Menegolli

>> Nel panorama delle eccezioni sarebbe un torto non segnalare la visione di un film la cui sinossi non è stata accolta dai più come particolarmente invitante: “Le bestie arrivano di notte. Sentono. Resistono. Prima dell’alba, un giovane le conduce a morire mentre il suo cane scopre un mondo spaventoso che sembra non avere fine”.  L’autrice è la giovane filosofa francese Maud Alpi, e Gorge, coeur, ventre (Still Life il titolo inglese ma che letteralmente si traduce Gola, cuore, ventre) è la suo opera prima, inserita all’interno della sezione competitiva Cineasti del presente.

Decidere di costruire un film all’interno di un mattatoio, o meglio decidere di ergere il mattatoio come luogo cardine di una riflessione che va ben oltre la supposta e programmatica crudeltà assassina per il cui scopo è stato progettato lo stesso, richiede una consapevolezza di osservazione in grado di spingersi oltre la documentazione dello svolgersi di un rituale lavorativo senza il quale i menu delle nostre tavole sarebbe radicalmente orientato verso altri sapori.


Perciò, la necessità della quale si è sentita investita la regista - e di cui ha brevemente accennato nella breve introduzione prima della proiezione in sala - di raccontare questa esperienza che di fatto è e rimane un tabù - come del resto lo è la morte nella nostra società cristiana occidentale - si è voluta tradurre in uno spettacolo che slabbra le limitazioni rigide del documentario per far entrare la narrazione, insolita, del vissuto animale. È nell’assunzione di questo punto di vista, e più nel dettaglio, del punto di vista del cane Boston, che si riconosce il valore di quest’opera che, come raramente può accadere, si può considerare frutto di originalità.


La Alpi imposta il proprio sguardo all’altezza di animale, adattando la fotografia con segni evidenti (immagine traballante e opaca, per esempio) di quell’ipotetica visuale canina che il Labrador utilizza per indagare il mondo che lo circonda. Limitata e impossibilitata dunque, e per fortuna, a osservare il più delle volte il compiersi della brutalità della soppressione, questa,  lascia lo spazio per uno svolgersi interiore da parte di chi usufruisce del film, e sviluppa di conseguenza un discorso che procede anche oltre le immagini. Un cinema calibrato, ponderato, senza bisogno di eccedere; un cinema nobile. L'autrice non ha alcuna paura a sottoporre l'essere umano a quella che potrebbe apparire come una degradazione: umano e animale sono identici, e non ha importanza come l'uno si serva dell'altro.

La libertà a cui andrà in contro, in un finale malinconico e intelligentissimo, il cane è l'explicit perfetto per inferire la dignità che spetta a tutte le creature. Una dignità fatta di libertà di scelta e di condivisione della stessa; istintuale, lontano da mistificanti legami, eppur consapevole che il dolore e il sacrificio non avranno mai fine. 
Maud Alpi ha vinto lo Swatch Art Peace Hotel Award, di sicuro un premio che non verrà citato nei giornali ma, si spera, un riconoscimento che le permetterà di non perdere la fiducia nelle sue qualità di cineasta. 

Alessandro Tognolo

   Premiato come miglior opera prima del concorso Cineasti del Presente, El Futuro Perfecto (futuro anteriore, in italiano) della regista tedesca trapiantata in Argentina Nele Wohlatz è un film apparentemente semplice, ma in realtà complesso e che si presta a molteplici piani di lettura.
Arrivata da poco a Buenos Aires, Xiaobin, 17 anni, non parla una parola di spagnolo, ma anziché isolarsi all'interno del proprio gruppo etnico (i suoi, gestori di una lavanderia, si rifiutano di mescolarsi ai locali e di imparare a fondo l'idioma), si cerca subito un lavoro e mette da parte i primi soldi per iscriversi a una scuola di lingue. Ed è qui, nel confronto con altri come lei appartenenti alle più diverse nazionalità, che comincia il suo cammino all'interno, non solo della lingua spagnola, ma anche del suo relazionarsi con gli altri e con le varie situazioni della sua nuova esistenza. Nella scuola conosce e comincia a frequentare un ragazzo indiano, Vijay; escono, comunicano quasi a gesti; lui viene da un gruppo etnico se possibile ancora più chiuso e tradizionalista, e infatti quasi subito le propone di sposarlo: Xiaobin prende tempo…
Allorché a scuola si arriva allo studio del condizionale e addirittura del futuro perfecto (quando avrò imparato lo spagnolo… cosa potrò fare?…), Xiaobin comincia a figurarsi le varie possibilità che si trova davanti. Cosa succederebbe se accettasse la proposta del matrimonio indiano (vista sul Taj Mahal e su splendide spiagge)? E se rompesse con la famiglia si ridurrebbe forse ad una barbona che fruga nei cassonetti? Le situazioni sono spesso esilaranti, sia nella scuola ("dovresti chiamarti Sabrina, assomiglia di più al tuo nome"), sia nel confronto con la varia umanità delle sue passeggiate bonarensi.


El Futuro Perfecto è un film sugli incontri-scontri culturali all'interno del mondo globalizzato, sulle difficoltà dell'integrazione, ma soprattutto su come il linguaggio interferisca con la vita, su come possa creare o aiutarci a creare una diversa realtà. Partendo da esperienze personali, Nele Wohlatz, arrivata adulta in Argentina, già insegnante di lingue e poi di cinema, ci da una lezione basica di linguaggio cinematografico. Dalla prima sequenza della protagonista che risponde a modo suo a un invisibile interlocutore (curiosità: scena ripresa poi tale e quale a Torino da un altro film argentino bizzarro ma geniale, Los Decentes), è tutto un susseguirsi di campo-controcampo, flashback e flash-forward, dissolvenze e dissonanze, che dimostrano un dominio assoluto del mezzo. Divertente, intelligente, giusto premiarlo. Forse la durata minima di sessantacinque minuti potrebbe rendere difficile una peraltro meritata distribuzione internazionale.

Giovanni Martini