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Un
festival quello di Torino che sa affrontare con coraggio e
indissolubile ostinazione la crisi culturale che sembra affliggere
il prodotto cinematografico, inseguendo una ricerca sulle forme e
sui generi che in Italia è oramai scomparsa e valorizzando il
prezioso contributo del pubblico, sempre numerosissimo, e non solo
degli addetti ai lavori, permettendo, di fatto, a tutti di accedere
e usufruire di film appartenenti a quel mercato festivaliero il più
delle volte inaccessibile e inarrivabile e per distanza e per
opportunità.
Il
concorso,
riservato ad opere prime, seconde e terze, ed unica sezione
competitiva, hai visto trionfare Keeper,
film d’esordio del belga Guillaume Senez, storia di due adolescenti
che devono affrontare una gravidanza indesiderata. Premio della
Giuria invece per La Patota
dell’argentino Santiago Mitre, che racconta di una giovane
avvocatessa che sceglie di abbandonare la sua sicurezza borghese per
entrare a contatto con una provincia ruvida e remota pagando un
prezzo altissimo. Il film, già vincitore della Semaine de la
Critique di Cannes, si è aggiudicato anche il premio come
miglior attrice per l’intensa Dolores Fonzo. Doppio premio (l’attore
Karim Leklou e il premio del pubblico) anche per il francese
Coup de Chaud di Raphaël
Jacoulot. Premio della sceneggiatura ex-aequo per
A Simple Goodbye (struggente ma
non particolarmente originale opera seconda della cinese Degena Yun)
e per il messicano Sopladora de hojas
di Alejandro Iglesias.
Si è detto della ricerca e della passione per i film di genere e
Torino si è dimostrato il portavoce di un rinnovato interesse per
questo filone troppo spesso relegato ai margini. Così la sezione
After
Hours, dedicata all’horror e alle sue derivazioni, è
stata la fucina dalla quale sono emersi i titoli più
divertenti, i
nomi più innovativi e gli autori cult: a partire dal ritorno di
Sion Sono, cui il Torino Film Festival nel
2011 ha dedicato in questa sezione la prima retrospettiva italiana,
e presente con ben tre film dei cinque girati nel corso del 2015.
Sono TAG, dove l’horror incontra
il surrealismo, Shinjuku Swan,
scatenato noir metropolitano tratto dall’omonimo manga, e
Love & Peace, bizzarro,
imprevedibile «film di Natale» Sono-style, interpretato da una
tartaruga mutante, un impiegato nerd che vorrebbe essere un cantante
pop, un misterioso barbone che vive nelle fogne, giocattoli
parlanti. “Questo film è la mia vita, la mia anima, il mio tutto”
ha dichiarato Sono a riguardo e per chi conosce il mondo di questo
regista straordinario non può che percepire il grado di fantasia,
ironia, sregolatezza e a tratti follia a cui la visione del film può
condurre.
Un gradito ritorno sugli schermi del
TFF
è stato quello del canadese Bruce McDonald (Pontypool,
This Movie Is Broken, The Husband), con
Hellions: è la notte di Halloween, ma l’adolescente Dora ha poca voglia di uscire per i
consueti festeggiamenti; improvvisamente, alla porta della casa
isolata in cui abita, bussano alcuni ragazzini, sembrerebbe per il
classico rito del «dolcetto o scherzetto», ma da quel momento per
Dora ha inizio un incubo di sangue. “In
Hellions c’è una ragazza intrappolata fra due desideri
conflittuali: restare bambina o diventare donna. E il film si muove
in quella zona grigia tra l’infanzia e l’età adulta”. Il film ce
la mette tutta a creare una certa inquietudine ma si fa ricordare
soprattutto per il lavoro di fotografia di Norayr Kasper, operando
audacemente sui colori e creando un alone ovattato e claustrofobico.
Ad onor del vero il genere horror non sembra godere di un
rinnovamento particolarmente entusiasmante.
La prova ne è stata l’esordio nella regia di Osgood Perkin, l’attore figlio di Anthony
Perkins, che con February
racconta l’inquietante, demoniaco intreccio della vita di tre
ragazze, due rimaste sole nel college svuotatosi per le vacanze
invernali, e la terza che ritorna invece alla scuola in una sorta di
sanguinoso pellegrinaggio. Il film si attesta su canoni molto
convenzionali e più che terrorizzare sembra dimostrare quanto lo
sfoggio di schemi formali ormai consueti anche per una pubblicità
siano duri a morire. Resta in ogni caso una genuina volontà di
ricercare un proprio stile da parte dell’illustre regista e
sceneggiatore. Il quale partecipa anche alla scrittura di
The Girl in the
Photographs di
Nick Simon, un horror che ha la grande fortuna di vedere come
produttore esecutivo il nome di Wes Craven, che significa quella
concreta garanzia di una certa adesione ad un classicismo di genere
condito da un dose di umorismo. Quell’umorismo che diverrà il vero e
unico protagonista invece nella scatenata commedia
The Final Girls di Todd
Strauss-Schulson, nella quale un gruppo di amici finisce nello slasher che stanno vedendo. E le parole del registra si riflettono
esattamente nel suo film: «Amo il cinema e mi piaceva l’idea di
fare un film in cui qualcuno rimane intrappolato in un film e in cui
gli stereotipi del cinema non ti mollano... Mi ricordo quando da
ragazzino andavo al videostore tutti i giorni e cercavo di
noleggiare ogni titolo della sezione horror.
The Final Girls è un rimando comico
a quei titoli, con la recitazione pessima, i costumi improbabili e
tutto il resto. Ma è anche un film sul cinema e sui cinefili. Volevo
che trasparisse la gioia assoluta della regia cinematografica: gran
parte dell’essenza del film risiede nel tono e nel modo in cui è
stato diretto».
La passione per il cinema è anche alla base dell’intenso e assiduo
lavoro di ricerca e sperimentazione che contraddistingue da sempre
un autore molto amato, a suo modo geniale e inclassificabile come Guy Maddin, presente con il suo caleidoscopico e anarchico
The Forbidden Room (realizzato
assieme a Evan Johnson), un tuffo nelle rimembranze di un immagini,
racconti del passato che mescolano e rimescolano in un susseguirsi
di trovate, illuminazioni, deliri estremi, avventure, citazioni,
melodrammi con lo scopo primario di solleticare fantasie inconsce,
deviate e surreali. Tutto ha inizio con l’equipaggio di un
sottomarino che sembra destinato a morire sul fondo dell’oceano.
L’improvvisa comparsa di un boscaiolo, in fuga da un gruppo di
banditi delle foreste, cambia tutto. E poi ancora un battaglione di
bambini soldato, un famoso chirurgo, una ragazza in viaggio sul
treno che va da Bogotà a Berlino, una donna bellissima da salvare...
«Abbiamo troppa narrativa nelle nostre teste, talmente tanta che
ci sembra che il cervello possa esplodere. Con questo film abbiamo
creato un ambiente controllato, una rete di racconti fatta di
serrature sotterranee, paratoie, scomparti, sifoni, canali di scolo
e grotte in cui tutti i film del presente, del passato e del futuro
che abbiamo nelle nostre grosse teste possano esplodere in tutta
sicurezza! Un luogo dove nessuno rimarrà ferito dalla spettacolare
catastrofe in Two-Strip Technicolor che infliggeremo allo schermo,
sapendo che il tutto verrà sciacquato via dai titoli di coda.
Rimanete al sicuro e godetevela!». C’è di che godere, e da
divertirsi, ma a lungo andare, a tratti, anche di che annoiarsi. Lo
stupore però rimane impresso a lungo: questo cinema lima a fondo
ogni dislivello con la videoarte, e diviene un’esperienza
manipolatoria di quella realtà creata dal nostro immaginario. Un
cinema fuori dagli schemi che proprio per questo è necessario
preservare come stimolo e incentivo di un’evoluzione.
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