È presumibilmente
tutta una questione di sensibilità, di percezione e
ricostituzione mai ovvia dei sentimenti pressoché limiti dei
quali disponiamo, e - in definitiva - di sguardo sulle
costanti inevitabili della natura umana, dalle componenti
rimarchevolmente discrepanti, se, nel cinema giapponese, è
possibile coniugare la estrosa e prolifica tradizione del
manga con le esigenze di realtà dei tradizionali generi
cinematografici quali la commedia e il dramma. Non certo una
novità per le produzioni made in Japan, e anzi, il più delle
volte, una necessaria derivazione per garantire visibilità e
successo tra il pubblico, il quale, senza distinzioni di età e
sesso, dimostra di prediligere, e ancor più precisamente, di
avere un legame famelico con il fumetto e l’animazione. Di
fatto attraverso questi due territori espressivi è possibile
rintracciare lo snodarsi di qualunque possibilità e modalità
di interazione e attrazione figurabile dall’immaginazione, in
ogni sorta di variabilità tematica, illustrazione espositiva,
declinazione d’animo, desiderio interdetto e interpretazione
antropologica. E dunque, quel che rappresenta un attributo
culturale specifico, a ben vedere, ricopre e palesa una carica
e una funzione in qualche modo assente nella cononica
ritualità cinematografica, rintracciabile probabilmente nella
palese ed eccentrica razionalizzazione estetica, da parte dei
suoi personaggi, delle proprie reazioni intime e
impronunciabili, ma così effettivamente inseribili in un
processo identificatorio ad ampio spettro e di forte impatto.
Miura
Daisuke, trentacinquenne regista e drammaturgo indipendente,
giunto con Boys on the
Run al suo terzo
lungometraggio (dopo First love, 2003, e Soul train, 2006),
dimostra essenzialmente di riuscire a manipolare i generi più
diversi, e soprattutto ad estrarre da essi gli elementi
necessari per formare una sintesi personale, in continuo
dialogo tra le molteplici sfumature del comico, della
commedia, e infine del dramma. Proprio come avviene spesso nei
manga.
Del resto infatti,
Boys on the Run
è tratto dal manga omonimo di Hanazawa Kengo, storia
all’apparenza semplice e scontata del giovane Toshiyuki
Tanishi, umile venditore per una piccola azienda che produce i
giocattoli con cui vengono riempiti i distributori automatici,
ossessionato da Chiharu, la collega più carina, ma incapace di
stabilire una relazione con le donne, e dunque ancora vergine,
e costretto a vivere in casa con i genitori. In sostanza
emblema di un inveterato fallimento. Ma dietro a questa inerte
esuvia da perdente, si nasconde l’anima di un lottatore:
quando un venditore concorrente bello, disinvolto e senza
scrupoli gli soffia Chiharu (che incredibilmente aveva
iniziato a ricambiare il suo interesse), Tanishi non può
resistere al desiderio di vendicarsi, e dimostrare la sua
volontà. E per farlo deve, prima di tutto, imparare a fare a
pugni...
Ma Boys on the Run
non è un film simbolico sulla rivincita dei nerd. Il destino
di Tanishi è tutt’altro che scontato e prevedibile. Ciò che
conta per Miura è l’intenzionalità scaturita dai sui
personaggi, e l’intensità dei sentimenti che li animano.
Inattesi, imprevedibili, cangianti e tuttavia mai patetici,
quanto all’apparenza sopiti e indolenti. Attorno al
protagonista ruotano figure eccentriche come il collega
ubriacone, improvvisato e insospettabile insegnante di boxe, e
la prostituta non più adolescente, sorta di sbandato feticcio
materno e coadiuvante del trofismo sessuale per giovani
innamorati, grazie all’aiuto dei quali si instaura in Tanishi
un meccanismo di riflessione che lo porterà alla rivolta e al
cambiamento.
Quel che è certo, nessuno dei personaggi di
Boys on the Run
è dispensato da un’ingloriosa delusione per la propria vita.
Ed è proprio per questo che, alla fine. non sarà possibile
catalogarli su piani morali di correttezza o malvagità: non ci
sono buoni o cattivi, e niente di per sé è giusto o sbagliato.
La sofferenza, decorosa e negata, identifica la vera costante
per il mondo creato da Miura, ed il sesso ne è il principale
organismo scatenante. La componente sessuale è rappresentata
senza alcuna verecondia, né sentimentalismo né dolcezza né
sdilinquimento, in tutto il suo necessario ed eccitante
squallore, e allo stesso tempo mistificata da un realismo
demenziale e dissacrante. Ecco allora che emerge la cifra
comica: si ride, molto, improvvisamente, colti di sorpresa. E’
con questi elementi che Daisuke Miura scompagina i generi ed è
nel versante buffo che si costituisce, irrazionalmente forse,
la completa identità dei personaggi; esattamente come accade
nel fumetto giapponese. Sarebbe quanto mai rischioso
rapportarsi a questo film senza considerare il filtro
iperbolico e vincolante di questo riferimento ipertestuale.
Così come non si potrebbe apprezzare appieno l’interpretazione
del protagonista Mineta Kazunobu (visto anche nella commedia
adolescenziale sulla ricerca del mitico “free secksu” -
l’amore libero, siamo negli anni Settanta - Oh, my
Buddha! di Taguchi Tomorowo, in cui interpretava l’hippie
Hige Godzilla, Godzilla Barbuto), autentico materiale plastico
da conformare, espressione debordante di un trasformismo in
grado di far convivere nel proprio corpo orgoglio e crudeltà,
dolore e tenerezza, rabbia e imbarazzo. Il suo Tanishi,
eludendo prudentemente la compassione, realizza il percorso di
affermazione e redenzione di un’identità qualunque, marginale,
comune, senza qualità che le possano permettere di renderla
diversa o speciale o distinguibile all’interno di un sistema
sociale saturo e costantemente alla ricerca dell’elemento
elitario, nonché della classica prevedibile incarnazione di
forza e bellezza. Pazienza se l’esito si rivelerà poi amaro e
imprevisto. Tanishi non rappresenta un modello di speranza,
piuttosto la possibilità di un’alternativa, che non equivale
mai alla soluzione, ma al tentativo che può modificare il
contesto. Nonostante Tanishi continui, dopo tutti gli sforzi,
ad essere un perdente, alla fine è nettamente un uomo diverso.
Tutto porta a pensare che la sua vita non sarà diversa, ma
l’approccio ad essa gli permetterà di prendere delle decisioni
diverse. E questo costituisce un radicale cambiamento.
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The Fair Love
è un film classico. Classico per lo stile adottato e per la
storia che affronta. Ma non per questo anacronistico, e anzi,
lo svolgersi pacato del racconto, reso così tangibilmente
familiare per finezza di caratterizzazione, e facilità di
comprensione, gli conferiscono una potenza inconsueta, e il
dono prezioso di riuscire a tracciare un’impressione durevole
nei ricordi. Un traguardo, se si pensa che il film in
questione è una commedia romantica sull’amore tra un
cinquantenne e una ragazza di trent’anni più giovane. Un
argomento non certo scabroso e rintracciabile nell’ordinaria
trattazione cronachistica e pseudo-scandalistica, o piuttosto,
letteraria e cinematografica, ma tuttavia cagionante un
inevitabile dispendio di giudizi moralistici tendenti al
biasimo e all’interdizione. Al di là delle possibili (e
rinviabili) congetture riguardo le cause, il cinema, in questa
sede, dimostra, ancora una volta, di essere l’artefice di un
proprio autorevole senso etico, dilatato e fondativo, e una
comprensione dei sentimenti umani priva di costr(u/i)zioni
scomode e castranti, nel tentativo costante di minare
l’inutile muro della vergogna che obnubila gli occhi e,
provocatoriamente, documentare, con profondo rispetto e
sensibilità, un accadimento spontaneo e positivo, riferito a
quella sfera dei sentimenti che quasi sempre si tende a
trascendere.
Già il titolo (in italiano sarebbe L’amore lecito) pone
da subito un tacito interrogativo analitico sulla natura
relazionale di un determinato rapporto, e infatti il
riferimento non è al fair di My Fair Lady, ma al detto “In
guerra e in amore tutto è lecito [fair]”. È proprio in
questa prospettiva che nasce e si consuma l’amore del tutto
imprevisto e imprevedibile tra Hyung-man, un solitario uomo
sulla cinquantina, proprietario di un negozio in cui ripara
macchine fotografiche, e Nam-eun, la figlia ventenne di un ex
amico di Hyung-man, quell’amico che alcuni anni prima gli ha
sottratto i risparmi di una vita ed è fuggito. Il loro
incontro avviene in circostanze particolari, quando il vecchio
conoscente, sul letto di morte, chiama Hyung-man, dapprima,
per porgli delle scuse poco convincenti, e poi per chiedergli
il favore di passare a casa di tanto in tanto per dare
un’occhiata a sua figlia, la quale, dopo la sua morte rimarrà
sola. Pur non dovendo nulla a quell’uomo, Hyung-man, forse
spinto dalla misericordia, o per bontà d’animo, o semplice
curiosità, decide di andare a trovare la ragazza.
Ciò che rende speciale questa storia d’amore è proprio il suo
non essere speciale. L’autore compie una precisa scelta
formale e decide di rappresentare questo incontro come un
evento che non possiede nulla di eccezionale. I due amanti non
vengono colpiti da un amore a prima vista né da una passione
travolgente. I loro incontri costituiscono prima di tutto il
delicato avvicinamento di due solitudini, indolenti e
ramificate; e la reciproca scoperta di una visione dell’altro
alternativa, stimolante e remissiva. Ma in che modo può essere
vissuto o deve consumarsi questo amore incomprensibile? E
quale significato distintivo lo rende tale? A cosa può servire
o cosa può cambiare per i due protagonisti intraprendendo
questo azzardo?
Un film di intenzioni sfumate, in cui i piccoli e stupidi
gesti quotidiani sono la naturale manifestazione di una
tensione emotiva mai pretestuosa e glorificata. E fa sorridere
l’atteggiamento da ragazzino innamorato di Hyung-man: ma -
diversamente che per lo spettatore - non c’è imbarazzo nei
suoi occhi nel portare i fiori fuori da scuola, o assentarsi
da una riunione di lavoro per parlare al telefonino. La
conclusione segue il destino naturale di ogni storia d’amore,
mantenendo e rimarcando l’ipotesi di critica verosimiglianza
con la credibilità dell’accadimento realistico. Nessun
compiacimento di buoni sentimenti dunque, ma solo i frammenti
dell’inganno triturante prodotto dall’adesione ingenua e
sfrenata al al fantasma narcisistico dell’amore. Ancora una
volta il diavolo è femmina (parafrasando il titolo italiano
del film di George Cukor del 1935), e l’uomo subisce il
declino della volontà a cui si aggrappa sempre più
affannosamente. Allietandosi nel ricordo.
Shin Yeon-shick è un autore lontano dal circuito mainstream
coreano. Il suo debutto alla regia nel 2003 con The
piano lesson, costato solo 400 dollari e girato in
cinque giorni, è la storia di una donna che produce un video
cd sulla vita e le opere di Chopin, mentre il successivo
A great actor (2005) prodotto con un budget di 3000
dollari, è la descrizione dettagliata delle esperienze di un
uomo che entra in una compagnia teatrale.
The Fair Love,
diretto, sceneggiato e prodotto come in precedenza dallo
stesso Yeon-shick, è stato presentato per la prima volta al
Pusan International Film Festival del 2009 ed è uscito nelle
sale coreane nel gennaio 2010. Questo film rappresenta
probabilmente uno dei migliori risultati derivanti (anche se
non dichiaratamente, ma in virtù di memetica diffusione
culturale) da quel filone di genere ibrido e serializzato,
molto diffuso in Oriente ma, a quanto pare, ancora poco
esportabile e decifrabile nella nostra Europa, legato
all’enorme successo delle serie televisive coreane, i drama
(í Korean drama da cui si è sviluppato il fenomeno
della Korean wave). I drama esprimono attraverso
criteri formali abbordabili e attraenti la necessità di
sviluppo di storie in cui le tematiche sentimentali sono al
centro delle vicende dei protagonisti - perlopiù teenager e
giovani che hanno da poco passato l’adolescenza, ma non solo
-impegnati nella gestione di rapporti spesso contraddittori,
tra loro e con gli adulti, e in cui vi sia un chiaro e
reperibile riferimento alla vita di tutti i giorni. Com’è
ovvio poi entrano in gioco molte variabili che ne determinano
caratteristiche e sottogeneri, ma in qualunque caso (come
spesso accade nei serial) è ribadito il primato della
scrittura. A partire da un accurato riguardo per la
sceneggiatura si dipana tutta la struttura del gioco dei
sentimenti e il suo imprevedibile decorso cosparso di
espedienti più o meno comici e drammatici.
The Fair Love
racchiude, nella compattezza della forma cinematografica, la
calibrata componente testuale, legata a una dimensione
tematica concettualmente fruibile e necessaria, e una messa in
scena in grado di sussumere un’arbitrarietà di sguardo,
certamente indipendente da qualsivoglia modello precostituito
e perciò scissa dai tempi e dalla fredda eleganza concernenti
il ristretto contesto dell’assetto televisivo.
Un tentativo dunque che permette di rintracciare la
suscettibilità e assieme l’elaborazione strutturale invalsi
nel perpetuo, seducente, inafferrabile divenire del cinema, e
nel dettaglio, di quel cinema “exotic, authentic,
hands-free, no safety” su cui si posano di anno in anno
gli occhi del cinefilo in attesa di soddisfare analiticamente
il proprio desiderio di rinvenimento e conoscenza. |