La rassegna (prima completa realizzata in
Italia) sul grande regista britannico David Lean è stata la
punta di diamante del
XXIV Bergamo Film Meeting: 16
titoli fondamentali, un catalogo ricco di
preziosi interventi, che non ha tralasciato lo
storico pezzo di amore/odio scritto André Bazin su
The Bridge on the River Kwai, apparso sul
primo numero del 1958 dei Cahièrs du cinèma ed
intitolato, manco a dirlo, Haute infidélité.
David Lean era nato nel 1908; dopo una lunga
carriera come montatore, esordisce nella regia, nel
1942, insieme con il commediografo Noel Coward,
dirigendo un suo testo: In
Which We Serve - Eroi del
mare,
che diventa il prototipo del film di impegno bellico
britannico. Coward ne è l’ottimo (serioso e
politically correct) protagonista; vi appaiono pure
due giovanissimi Michael Wilding e John Mills,
futuri ‘mostri sacri’ della cinematografia inglese;
è già presente Celia Johnson, attrice esemplare,
dall’apparenza quasi insignificante, in realtà
attrice di grande sintesi interpretativa, con cifra
stilistica performativa giocata/recitata (played)
modernamente, si potrebbe dire, in continua
sottrazione.
Il sodalizio con Coward continua con
This Happy
Breed - La famiglia Gibson fino a
Breve incontro, del 1945, capolavoro
del dopoguerra, ancora (come il precedente) con
Celia Johnson ed un sempre misurato Trevor Howard,
anche se stavolta un po’ fuori dai suoi ‘soliti’
schemi d'attore.
Un minimalismo quasi teatrale della mise-en-scéne
(non a caso, visto l’autore) caratterizza Breve incontro,
cui fanno seguito due insuperati adattamenti di Lean
da Dickens:
Great Expectations
ed
Oliver Twist
(il
recente remake di Polanski evidenzia, nel
confronto col pur bravissimo Ben Kingsley, la classe
irraggiungibile di Alec Guinness).
Seguono alcune pellicole di cui è protagonista Ann
Todd (allora sua moglie, di cui era innamoratissimo)
di cui molti ricorderanno la sofferta
interpretazione, come consorte di Gregory Peck, in
Il caso Paradine di Hitchcock.
Nel 1954 Lean gira
Hobson
il tiranno, uno storico ritratto vittoriano,
interpretato da par suo dal magnifico istrione, Charles Laughton, mentre nel 1955 prende il via la
grande produzione internazionale che inizia con
Tempo d’estate, in
cui dirige a Venezia Katharine Hepburn accanto
al nostro Rossano Brazzi.
Dall’incontro con Sam Spiegel nasce il
Il ponte
sul fiume
Kwai, superproduzione anglo-americana
del 1957 che vince 7 Oscar, ancora con Alec Guinness,
sempre al top, e con un William Holden bello,
atletico e fascinoso (quasi come ne
L’amore è una
cosa meravigliosa di due anni prima...).
La grandeur continua con
Lawrence d’Arabia,
tratto dal libro I sette pilastri della saggezza
di Thomas Edward Lawrence, che diede smalto e
notorietà ad un Peter O’Toole mai-più-così per
arrivare, nel 1965, al colossal/cult movie
Il dottor Zivago, premiato coni 5
Oscar, un “…superspettacolo - come sottolinea
Emanuela Martini - di altissimo budget e di
popolare impegno che diventerà come genere, dagli
anni ’70, una costante saltuaria del cinema europeo,
non solo inglese”.
Un flop, nonostante due Oscar, caratterizza invece
La
figlia di Ryan, nel
1970, fatto che spinge Lean a ritirarsi dalla regia.
Ritornerà a dirigere per un’ultima volta (escludendo
Nostromo, un ‘non risolto’ dovuto alla sua
malattia e morte, che lo colse nel 1991) nel 1985
con
l’adattamento da Edward M. Forster di
Passaggio in India (2 Oscar),
interpreti una giovane, già molto brava (nella sua pruriginosità tutta inglese) Judy Davis e due
mostruosi ‘old vic…hiani’ come Peggy Ashcroft e, why
not, Alec Guinness.
In margine ad una ricchezza figurativa memorabile,
va sottolineata, riguardo all'opera di David
Lean, un'ulteriore costante di raffinatezza :
la colonna sonora. Nei suoi film la musica, più che
commento, è spesso un’altra grande protagonista,
forse la deuteragonista, rispetto ai grandi attori
da lui coinvolti: sia che fosse ripresa da quella
classica, come il 2° mov. dal Concerto n. 2
di Sergej Rachmaninoff, che accompagna i momenti
salienti di Breve incontro (un pezzo fin
troppo usato, basti pensare a Il ritratto di
Jennie, di Wilhelm Dieterle, di soli tre anni
dopo) sia che si trattasse di partiture
scritte ad hoc come quelle per
Spirito allegro e
The
passionate Friends – Sogno d’amanti, firmate da
un autore ‘ancora’ classico come Richard
Addinsell (quello del mitico The Warsaw Concert –
Il Concerto di Varsavia). E come non rimanere
impressionati dal respiro epico e struggente delle
composizioni di Maurice Jarre per
Lawrence d’Arabia
o Il Dottor Zivago?
I film della
rassegna
In Which We Serve
(Eroi del mare, 1942)
This Happy Breed (La famiglia Gibson, 1944)
Blithe Spirit (Spirito allegro, 1945)
Brief Encounter (Breve incontro, 1945)
Great Expectations (Grandi speranze, 1946)
Oliver Twist (Le avventure di Oliver Twist,
1948)
The Passionate Friends (Sogno d’amanti, 1949)
Madeleine (L’amore segreto di Madeleine, 1950)
The Sound Barrier (1952)
Hobson's Choice (Hobson il tiranno, 1954)
Summer Madness (Tempo d’estate, 1955)
The Bridge on the River Kwai (Il
ponte sul fiume Kwai, 1957)
Lawrence of Arabia (Lawrence d’Arabia, 1962)
Doctor Zhivago (Il dottor Zivago, 1965)
A Passage to India (Passaggio in India, 1984)
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Anche quest’anno Udine "porta a oriente” e la figura
longitipica della ragazza della locandina (dal volto
decolorato e meditabondo, vestita con uno sfavillante
cappottino rosso) ci conduce all’interno
del nutrito programma. Una selezione, quella dell'VIII
Far East Film Festival,
che, rispetto agli anni scorsi, si è fatta ancora più
densa, specchio del sempre più crescente interesse da
parte di pubblico e stampa, e della risonanza internazionale
suscitata dall’evento. I numeri parlano chiaro: 50 mila
spettatori e mille accreditati da più di venti paesi
diversi.
In sintesi: Hong Kong, Corea del Sud e Giappone, erano
i paesi maggiormente rappresentati con, rispettivamente,
dodici, tredici e otto pellicole; seguivano Cina e Filippine
- quattro ciascuna - Thailandia con sei, Taiwan
con una.
Il festival si è aperto all’insegna dell’horror d’autore
con la prima visione europea dell’ultimo lavoro di Takashi
Miike
Imprint,
episodio della serie Masters of Horror (a cui
hanno
partecipato anche John Carpenter, Joe Dante, John Landis,
Dario Argento), commissionato, e poi esiliato, dal canale
satellitare americano Showtime. L’horror, come genere,
nelle sue varie forme, ha permeato la visione di diversi
film, anche se propriamente non di genere (per quelli
non poteva non ripetersi il “sacro” rito dell’horror
day…), tra cui è doveroso menzionare
Rampo Noir,
oggetto perturbante e di indelebile memoria.
Le sorprese maggiori sono arrivate dalla
retrospettiva dedicata
al musical asiatico Asia
canta!, dal tributo
a Meike Mitsuro – regista
di Pink movies – e dall’omaggio
al grande autore giapponese Jissoji Akio.
Ma è proprio il già citato Rampo
Noir a unire, o meglio,
condensare, la curiosità e l’interesse verso generi
e nomi (a noi) così poco conosciuti.
Rampo Noir
è un film composto
da quattro distinti episodi basati sulle storie di Edogawa
Rampo firmati da quattro diversi registi, i giovani
Takeuchi Suguru e Kaneko Atsushi e i più anziani e stimati
Sato Hisayasu e Jissoji Akio, con protagonista Asano
Tadanobu, famoso per i suoi ruoli nel cinema indipendente
giapponese e già visto in
Zatoichi
di Kitano. Edogawa Rampo (vero nome Hirai Taro, 1894-1965)
è un discepolo di Edgar Allan Poe e Arthur Conan Doyle,
ha reso popolare in Giappone il romanzo giallo con Akechi
Koguro, una versione locale di Sherlock Holmes, rimodellandone
i contenuti e creando un proprio genere, chiamato
eroguro, che è una commistione di erotico e grottesco.
I suoi romanzi hanno ispirato decine di film e spettacoli
televisivi nel corso degli anni e in particolare hanno
assecondato la fantasia di Jissoji Akio (nato a Tokyo
nel 1937) prolifico autore già a partire dagli anni
60 di serie televisive, passando per il poliziesco e
il giallo, per lo sperimentalismo e il visionario, poi
per i film d’essai, approdando infine al cinema di genere
(science fiction ed eroguro). Jissoji
ha realizzato tre film basati sulle storie di Rampo:
A
Watcher In The Attic
(Edogawa Rampo Monogatari: Yaneura no Sanposha,
1994), Murder
On D Street
(D
Zaka no Satsujin Jiken,
1997, forse il suo capolavoro) e
The Hell Of Mirrors
(Kagami Jigoku, 2005) secondo episodio di
Rampo Noir
(tutti proposti nel corso del festival). I tre film
di Jissoji Akio
tratti da Rampo sono “storie del mistero, immerse
nell’erotismo, nel decadente e nel macabro, con una
base di umorismo beffardo e di sguardo penetrante sulle
più basse passioni umane”, in cui il protagonista
detective Akechi Kogoro, “dall’intuito inquietante
per i recessi più oscuri dell’animo umano, guance scavate,
altezza imponente, modi concisi”, indaga, sulle
perversioni voyeristiche di un giovane languido abitante
di una pensioncina della Tokyo di inizio secolo (A
Watcher In The Attic),
sull’uccisione della proprietaria di un negozio di libri
con una certa propensione per il sesso perverso (Murder
On D Stree), sull’uccisione
di alcune donne legate ad un particolare specchio giapponese
(The Hell Of Mirrors).
Per quanto i film e le storie siano a tutti gli effetti
dei gialli, in cui il fine ultimo è la scoperta dell’assassino
e i modi dell’assassinio, Jissoji è interessato, sempre,
più allo sviluppo delle caratteristiche umane, folli,
esacerbate, intrinseche dei personaggi (investigatore
compreso), che alla mera scoperta dei fatti. L’autore
riesce a creare un mondo con una esclusiva atmosfera
ovattata, contenitrice di pulsioni e istinti primari
e fecondi, e usa a pretesto l’intreccio narrativo per
svelare le ombre e i sospetti della psiche, provocando
una sorta di danza perpetua sui ricordi, la percezione,
il passato, l’immaginazione: “Mi piacciono le cose
che non hanno uno scopo. Non amo i film il cui obiettivo
è commuovere la gente oppure darle forza. Tutti i miei
film sono esattamente l’opposto: non hanno alcuno scopo”.
Rampo Noir
fa da legame anche con un altro importante filone della
cinematografia giapponese: i film
pink (pinku
eiga), di cui Sato Hisayasu è uno dei cosiddetti
“quattro imperatori”. L’episodio diretto da Sato,
Caterpillar
(Imomushi),
non costituisce affatto un pink – è più schiettamente
eroguro nel classico stile di Rampo
– ma può essere a suo modo assoggettato per alcuni aspetti
erotico-sessuali: il tenente Sunaga torna dalla guerra
ridotto a un torso mutilato, senza mani né piedi né
lingua, in grado di comunicare solo con grugniti, gemiti
e con gli occhi tormentati (un bruco, come dal titolo).
All’inizio la moglie si occupa di lui ma col tempo si
stanca e scopre un modo migliore per accudirlo… E’ proprio
nella personaggio della moglie che il film risente dell’anima
pink del regista: giovane e attraente con marcati
e frequenti desideri sessuali. Di fatto i film pink
sono a tutti gli effetti dei porno soft (la formula
prevede una scena di sesso simulato ogni dieci minuti
circa), destinati ai cinema pidocchiosi frequentati
da anziani maniaci sessuali, ma che in taluni casi,
data la discreta quantità di libertà di sperimentazione,
riescono ad elevarsi e diventare qualcos’altro. E’ il
caso di Bitter
Sweet
(2004) e The
Glamorous Life of Sachiko Hanai
(Hanai
Sachiko no Karei no Shogai,
2005), entrambi di Meike Mitsuru. Il trentasettenne
regista ha vinto nel 2002 il premio come migliore regista
di pink, e con questi due titoli è riuscito a trovare
una distribuzione fuori dal circuito a luci rosse. Ciò
che li contraddistingue dai normali prodotti pink
è “la penetrante aria di nostalgia, frustrazione
e tristezza, abbastanza comune nella vita reale ma davvero
rara nel porno”, soprattutto per quanto riguarda
Bitter Sweet,
dove ci si trova di fronte a situazioni comuni e facilmente
identificabili: strade generiche, stanze d’albergo,
ristoranti della vita urbana giapponese. Per contrasto
invece The Glamorous Life
of Sachiko Hanai risulta
molto più bizzarro r spassoso: l’eroina (come sempre
dotata di un corpo tutto curve) viene colpita casualmente
da un proiettile che le si ferma nel cervello aumentando
a dismisura il suo quoziente di intelligenza: divora
libri di Kant, Sartre e Chomsky e inizia a declamare
frasi dotte... Il film diventa così, e non marginalmente,
l’occasione per satireggiare un po’ su tutto, dalla
presunzione accademica alla politica estera di George
W. Bush.
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