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Comunicati & segnalazioni 2006-2007

 


SIC
Settimana Internazionale
della Critica di Venezia

documentazione:
regolamento
storia 84-99

i festival del TRIVENETO

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Una censura per SCHERMI D'AMORE

Pensavamo che non avremmo più dovuto occuparci di censure etiche o politiche. Che fosse finita l'epoca in cui non si poteva pronunciare in tv la parola "carta igienica" perché avrebbe potuto stimolare pensieri "bassi", o di un qualche ministro, tanto per non fare nomi, Giulio Andreotti, che censurava i capolavori del cinema neorealista perché offendevano l'immagine del nostro Paese. Pensavamo che l'Italia fosse diventata una nazione laica, in cui ognuno potesse decidere quali valori etici seguire e quali evitare, quali spettacoli considerare poco consoni alla propria visione del mondo e quali invece seguire perché così ci va di fare.
Invece, non è così. L'attacco mosso da monsignor Bruno Fasani, direttore dell'ufficio stampa della Curia veronese, a Schermi d'amore, colpevole di mostrare alcuni film di Tinto Brass, ci riporta indietro in un tempo in cui vi era l'indice dei film proibiti, vuoi perché ritenuti peccaminosi, vuoi perché politicamente lontani. Non è un bel segno.
Nel nostro Paese esiste una censura che decide i divieti ai minori e poi, per fortuna, l'opera ha tutte le carte in regola per poter essere proiettata, vista, goduta, discussa e studiata da chi lo crede opportuno. Non è questo un segno di libertà? Un segno che ci allontana dai regimi totalitari o dagli stati dell'ortodossia islamica (vedi talebani) che impediscono la visione della tv perché non rispettosa dei dettati etici del Corano?
Padrone chiunque di ritenere le opere del regista veneziano "una violenta porcheria", ma si lasci a chi vuole di decidere il suo giudizio in totale autonomia. E soprattutto, si garantisca a istituzioni culturali com'è Schermi d'amore la possibilità di indagare sui fenomeni cinematografici che crede più opportuni alla sua linea di ricerca. E poi, mi perdoni, monsignor Fasani, crede davvero che l'erotismo vitalistico e solare di Brass sia più rischioso eticamente di qualche "Villaggio dei famosi" o "reality show"?
Infine, troviamo pericolosa l'idea che "ogni proposta pubblica debba avere un vincolo etico". Quale vincolo etico? Quello cattolico, quello islamico, quello di Scientology? Ogni attività culturale pubblica (ma anche privata) deve avere come unico vincolo la serietà con la quale si studiano e si collocano proposte anche ardue e si permette a tutti di fare conoscenza anche di oggetti che magari sono assai lontani dal gusto personale.
E noi crediamo che Schermi d'amore abbia, a riguardo, tutte le carte in regola.

Festival di VE: nuove forme di nicchia?

Sono d'accordo con Roberto Ellero quando scrive, nel numero di ottobre di "Venezia News", che è indispensabile una "nuova forma dei festival" capace di costruire un senso dove la socialità è centrale prima ancora della sua modalità intrinseca. Una forma capace di far uscire i festival e il cinema stesso dalla "nicchia del panda" e restituirlo al "mondo vero". Tanto più questo vale per la Mostra del cinema di Venezia le cui ultime modalità non sono nemmeno protettive di una forma generalista (il cinema d'iper-autore accanto all'evento iper-mondano), ma dell'evento in sè (asfissianti barriere di controlli aeroportuali, pubblico vero ai margini che al massimo applaude le passerelle dei divi, protezione e separazione dagli altri degli addetti ai lavori). Un festival che potrebbe svolgersi più comodamente su un'astronave o su una riserva, appunto, di protezione del panda. La discussione sulla necessità di un nuovo palazzo del cinema lidense, una nuova riserva da costruire "più bella e più grande di pria", come ironizzava Petrolini, mostra che non si vuole capire il problema. Da moltissimi anni, andiamo dicendo, sempre ascoltati con bonaria sufficienza, che se vi è salvezza per la Mostra veneziana questa è il suo diventare città, essere un festival diffuso nel tessuto urbano di Venezia, festa per tutti e non per pochi. In questo senso, Roma ha, quasi, vinto privilegiando la festa sul festival in sé, la socializzazione dell'evento sull'evento. E di questo si dovrebbe fare lezione.
Attenzione, però. E' una lezione che ha i suoi pericoli, perché, non dimentichiamolo, gli amministratori pubblici mostrano spesso una miopia non tanto paradossale. Dimenticano, ad esempio, che la socializzazione non può essere disgiunta dalla qualità e dalla serietà della proposta cinematografica, che non si può dimenticare Straub per Clooney, che la socialità non è mondanità. Tant'è che anche seri amministratori di una grande città del nord dove si svolge un festival socializzante e serissimo sul piano delle proposte (tanto per non fare nomi, il Torino Film Festival), chiedono, dopo Roma, che ci siano più divi, più passerelle, più "eventi". Alla fine, più lustrini e paillettés. Crediamo che il vero "lustrini e paillettés" sia riuscire a portare chiunque, festosamente, curiosamente, a vedere Straub nel cinema "della porta accanto" e magari possa poi discutere assieme agli altri chiunque seduto in un vero ristorante o tra le calli della città, e non, come succede al Lido, in piedi con un pessimo e carissimo hot-dog in mano destreggiandosi tra un chek-in e l'altro guardato come pericoloso terrorista da guardie del corpo uscite da "Men in Black". E se poi tra quelle calli c'è anche Clooney, tanto meglio, ma non necessariamente.

DICEMBRE 2006 Giuseppe Ghigi
Fiduciario Triveneto S.N.C.C.I.
 


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