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Una censura per SCHERMI D'AMORE
Pensavamo che non
avremmo più dovuto occuparci di censure etiche o politiche. Che
fosse finita l'epoca in cui non si poteva pronunciare in tv la
parola "carta igienica" perché avrebbe potuto stimolare pensieri
"bassi", o di un qualche ministro, tanto per non fare nomi, Giulio
Andreotti, che censurava i capolavori del cinema neorealista perché
offendevano l'immagine del nostro Paese. Pensavamo che l'Italia
fosse diventata una nazione laica, in cui ognuno potesse decidere
quali valori etici seguire e quali evitare, quali spettacoli
considerare poco consoni alla propria visione del mondo e quali
invece seguire perché così ci va di fare.
Invece, non è così. L'attacco mosso da monsignor Bruno Fasani,
direttore dell'ufficio stampa della Curia veronese, a Schermi
d'amore, colpevole di mostrare alcuni film di Tinto Brass, ci
riporta indietro in un tempo in cui vi era l'indice dei film
proibiti, vuoi perché ritenuti peccaminosi, vuoi perché
politicamente lontani. Non è un bel segno.
Nel nostro Paese esiste una censura che decide i divieti ai minori e
poi, per fortuna, l'opera ha tutte le carte in regola per poter
essere proiettata, vista, goduta, discussa e studiata da chi lo
crede opportuno. Non è questo un segno di libertà? Un segno che ci
allontana dai regimi totalitari o dagli stati dell'ortodossia
islamica (vedi talebani) che impediscono la visione della tv perché
non rispettosa dei dettati etici del Corano?
Padrone chiunque di ritenere le opere del regista veneziano "una
violenta porcheria", ma si lasci a chi vuole di decidere il suo
giudizio in totale autonomia. E soprattutto, si garantisca a
istituzioni culturali com'è Schermi d'amore la possibilità di
indagare sui fenomeni cinematografici che crede più opportuni alla
sua linea di ricerca. E poi, mi perdoni, monsignor Fasani, crede
davvero che l'erotismo vitalistico e solare di Brass sia più
rischioso eticamente di qualche "Villaggio dei famosi" o "reality
show"?
Infine, troviamo pericolosa l'idea che "ogni proposta pubblica
debba avere un vincolo etico". Quale vincolo etico? Quello
cattolico, quello islamico, quello di Scientology? Ogni attività
culturale pubblica (ma anche privata) deve avere come unico vincolo
la serietà con la quale si studiano e si collocano proposte anche
ardue e si permette a tutti di fare conoscenza anche di oggetti che
magari sono assai lontani dal gusto personale.
E noi crediamo che Schermi d'amore abbia, a riguardo, tutte
le carte in regola.
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Festival di VE: nuove forme di nicchia?
Sono d'accordo con
Roberto Ellero quando scrive, nel numero di ottobre di "Venezia
News", che è indispensabile una "nuova forma dei festival" capace di
costruire un senso dove la socialità è centrale prima ancora della
sua modalità intrinseca. Una forma capace di far uscire i festival e
il cinema stesso dalla "nicchia del panda" e restituirlo al "mondo
vero". Tanto più questo vale per la Mostra del cinema di Venezia le
cui ultime modalità non sono nemmeno protettive di una forma
generalista (il cinema d'iper-autore accanto all'evento iper-mondano),
ma dell'evento in sè (asfissianti barriere di controlli
aeroportuali, pubblico vero ai margini che al massimo applaude le
passerelle dei divi, protezione e separazione dagli altri degli
addetti ai lavori). Un festival che potrebbe svolgersi più
comodamente su un'astronave o su una riserva, appunto, di protezione
del panda. La discussione sulla necessità di un nuovo palazzo del
cinema lidense, una nuova riserva da costruire "più bella e più
grande di pria", come ironizzava Petrolini, mostra che non si vuole
capire il problema. Da moltissimi anni, andiamo dicendo, sempre
ascoltati con bonaria sufficienza, che se vi è salvezza per la
Mostra veneziana questa è il suo diventare città, essere un festival
diffuso nel tessuto urbano di Venezia, festa per tutti e non per
pochi. In questo senso, Roma ha, quasi, vinto privilegiando la festa
sul festival in sé, la socializzazione dell'evento sull'evento. E di
questo si dovrebbe fare lezione.
Attenzione, però. E' una lezione che ha i suoi pericoli, perché, non
dimentichiamolo, gli amministratori pubblici mostrano spesso una
miopia non tanto paradossale. Dimenticano, ad esempio, che la
socializzazione non può essere disgiunta dalla qualità e dalla
serietà della proposta cinematografica, che non si può dimenticare
Straub per Clooney, che la socialità non è mondanità. Tant'è che
anche seri amministratori di una grande città del nord dove si
svolge un festival socializzante e serissimo sul piano delle
proposte (tanto per non fare nomi, il Torino Film Festival),
chiedono, dopo Roma, che ci siano più divi, più passerelle, più
"eventi". Alla fine, più lustrini e paillettés. Crediamo che il vero
"lustrini e paillettés" sia riuscire a portare chiunque,
festosamente, curiosamente, a vedere Straub nel cinema "della porta
accanto" e magari possa poi discutere assieme agli altri chiunque
seduto in un vero ristorante o tra le calli della città, e non, come
succede al Lido, in piedi con un pessimo e carissimo hot-dog in mano
destreggiandosi tra un chek-in e l'altro guardato come pericoloso
terrorista da guardie del corpo uscite da "Men in Black". E se poi
tra quelle calli c'è anche Clooney, tanto meglio, ma non
necessariamente.
DICEMBRE 2006
Giuseppe Ghigi
Fiduciario Triveneto S.N.C.C.I.
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