Toxicily

François-Xavier Destors, Alfonso Pinto

All’ombra della splendida Siracusa batte il cuore di uno dei più grandi complessi petrolchimici d’Europa. A settant’anni dall’arrivo delle prime raffinerie, questo territorio sembra essere stato abbandonato a sé stesso e all’inquinamento del cielo, della terra e del mare.

Francia/Italia 2023 (75′)
Festival dei Popoli – menzione speciale

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   Augusta – in provincia di Siracusa – uno dei comuni dell’area della Sicilia orientale, che dal 1949 è stata costantemente violata dalla presenza ammorbante del Petrolchimico (con effetti segnalati da studi scientifici fin dagli anni ‘70), è il luogo d’indagine da cui gli autori si sono sentiti chiamati, tra notti illuminate da pachidermi di tubi fumi e metalli, capannoni ischeletriti e un mare che ricorda la bellezza splendente di un tempo ma che forse è solo una parvenza, un doloroso scherzo percettivo. Tutto questo mentre i ragazzi del posto arrivano in spiaggia coi caschi al braccio, e gli abitanti, con le loro tragedie scritte sulla pelle e su quella dei propri cari, non possono immergersi se non avendo davanti le torri della raffineria, che spaccano il cielo avvelenato della Sicilia con lamine di fuoco. Se avessimo una partitura olfattiva come quelle di Gianikian e Ricci Lucchi, potremmo percepire anche gli odori… Questi luoghi, dove pascolano le mucche quando un cartello lo vieta espressamente causa stratificazioni di rifiuti tossici, che inquietano chi vi si accosta anche per mangiare «un’innocua» ottima mandorla, sono il corpo oltraggiato del territorio che è stato ed è tutt’uno con i corpi di chi lo abita, fin dai più anziani, i primi a essere ingannati dal miraggio del lavoro e del petrolio – cui in modo mellifluo inneggia la voce di un filmato anni ‘50 – dal desiderio di emanciparsi da ataviche deprivazioni, dalla povertà del dopoguerra. Ma non riguarda un’unica generazione. Così si fa avanti Chiara, che fin da piccola, si è scontrata, insieme alla madre, con gli effetti sulla sua salute di quel sistema ricattatorio (il cancro o la fame? scrive uno dei protagonisti del film nelle sue incursioni da writer), c’è chi ha combattuto una vita con Lega Ambiente; chi, come Nino Comito, resta il cantore più puro della bellezza passata pur non potendola più vedere con gli occhi, e forse proprio per questo; una figlia lotta per la memoria del padre che con la leucemia ha perso la vita e il credere nella fabbrica. Poi, in chiesa, o al cimitero, attraverso la voce di don Palmiro Prisutto, risuonano i nomi dei morti, fino a vedere le foto dei bambini scomparsi (ed è giusto così), si parla delle malformazioni, si discute di quella che oggi è imperdonabile ignoranza, di omertà, dei legami tra mafia e politica, di andar via e di restare, di come sarebbe se tutti gli abitanti di Augusta Melilli Priolo e Siracusa si unissero…

E se, innanzi al muro delle multinazionali e alle loro sempre più perverse azioni per eludere la legge – citando Sofocle e una tragedia al Teatro Greco – si sente quanto è aspro il sapere quando è inutile, pure, in questo sconforto, c’è un senso caldo e ormai raro di comunità, che talvolta abita persone provate in modo indicibile. E che, oltre tutto questo, è seme. A settant’anni dall’arrivo delle prime raffinerie sulla costa orientale siciliana, i due autori esplorano i temi del sacrificio ambientale e sanitario, restituendo la pluralità dei punti di vista degli stessi abitanti: se questa impresa industriale ha permesso di superare le miserie di un’economia agricola precaria, trasformando pescatori, contadini e pastori in operai, ha creato però un’emergenza sia sanitaria ed ambientale a causa dell’inquinamento. Di fronte a questo scempio, la maggior parte dei cittadini sembra essere rassegnata. «Meglio morire di cancro che di fame» è una delle frasi che ritorna spesso nel film. Altri invece resistono e lottano affinché questa ingiustizia non sia più taciuta e sia finalmente riconosciuta dalle istituzioni. Come Don Palmiro, sacerdote, che oggi paga il prezzo del suo impegno per la salute dei suoi concittadini, Lina e sua figlia Chiara che dall’età di 7 anni lotta contro una rara malformazione congenita, Andrea che ha tentato durante la sua vita di operaio di limitare, nel suo piccolo, i danni dell’industria su ambiente e salute. E ancora Nino che malgrado la sua cecità condivide i ricordi di un mondo perduto, Giusi che dopo la perdita di suo padre a causa di una malattia professionale, si batte contro tutto e contro tutti in nome della giustizia ambientale. Attraverso la complessità dei rapporti fra abitanti, territorio e industrializzazione, emergono gli interrogativi, i dubbi e i limiti del mondo che verrà.

Giorgia Del Don – cineuropa.org

  Se la Sicilia è conosciuta per le sue spiagge da sogno, il suo mare cristallino e le sue immagini da cartolina promosse da Dolce&Gabbana, ben pochi sono al corrente di ciò che ribolle nel suo sottosuolo e che aleggia nella sua aria. L’epicentro dell’”ecocidio”, termine utilizzato dai registi stessi, François-Xavier Destros e il ricercatore in geografia e culture visuali Alfonso Pinto, è la città di Siracusa o per essere più precisi il territorio di Augusta-Priolo-Melilli-Siracusa. Qui, la Sicilia di cartolina lascia il posto ad una Sicilia tossica che in pochi hanno il coraggio di guardare in faccia tanto il suo volto spaventa. La causa di questo dramma che i cittadini vivono concretamente sulla loro pelle e che porta con sè malformazioni fetali, tumori e gravi malattie respiratorie è la cupidigia dall’industria petroliera. Dal 1949, la periferia industriale di Augusta ospita infatti uno dei maggiori poli petrolchimici d’Europa composto da gigantesche fabbriche così come da veri e propri villaggi, oggigiorno abbandonati, che ospitavano le numerose “piccole mani” impiegate nel settore. Se, per i dirigenti del settore, le ricchezze accumulate sono stratosferiche, quelle dei numerosi lavoratori che hanno abbandonato le attività agricole per trasformarsi in operai rassegnati ma tutto sommato fieri, si riducono invece a poche briciole. Una situazione tanto più triste se si pensa ai rischi che questi ultimi hanno e continuano a prendere, esposti a sostanze chimiche altamente tossiche e cancerogene. “Meglio morire di cancro che di fame” è una delle frasi che ritorna costantemente nel film, un mantra che molti degli abitanti di queste terre si ripetono come a volersi convincere che il compromesso che hanno accettato è una sorta di fatalità.

Sebbene siano numerosi quelli che vivono questa situazione in modo rassegnato, come agnelli sacrificali destinati a nutrire una globalizzazione sempre più vorace e crudele, esistono però anche quelli che non ci stanno ed è proprio a loro che Toxicily è dedicato. Fra chi accetta e chi resite, il film mette in scena un territorio in bilico fra paradiso e inferno, bellezze naturali mozzafiato e odori chimici nauseabondi in una sorta di dialogo costante fra ciò che si vede e ciò che si sa (anche se si preferirebbe ignorarlo). I racconti drammatici di quanti denunciano una situazione intollerabile, messi in parallelo con le immagini bucoliche di mucche al pascolo e piante di mandorlo che sappiano avvelenate, risuonano tragicamente nella nostra mente e ci spingono a riflettere al costo esorbitante del “progresso”. Sobrio, preciso e tragicamente poetico, Toxicily va dritto al punto parlando di un’emergenza sanitaria e ambientale che non può più essere ignorata e che continua a mietere vittime nell’indifferenza quasi generale. Paradossale, meravigliosa e allo stesso tempo spaventosa, la Sicilia dipinta dal duo di registi franco-italiano ci spinge a domandarci quale sarà il nostro futuro se non decideremo, finalmente, di aprire gli occhi.

Maria Grosso – ilmanifesto.it

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