Una
pallina da baseball colpita dalla mazza puņ viaggiare oltre i 200 km all'ora,
Il
migliore (opera seconda di Barry Levinson,
ambientata nel mondo del baseball) sembra aver viaggiato nello spazio cinemato-grafico
- a livello di riflessione critica - ancor più velocemente.
Sono stati certamente buoni gli incassi, persino superiori a quelli della
bomba- rock
Strade di fuoco,
ma se quest'ultimo (a firma di Walter Hill) ha stimolato occasioni di video-evento,
almeno nella generazione più giovane,
Il
migliore è passato quasi sotto silenzio,
a velocità di pallina da baseball. Afferriamola allora, per un momento,
quella pallina e rivisitiamo brevemente il racconto. La storia è
quella di Roy Hobbs (Robert Redflord), ragazzo-promessa del baseball, che
in età adatta compie alfine il suo 'viaggio d'iniziazione' per un
provino nella squadra dei Knights. Sul treno conosce un'ambigua figura
femminile e, anche se al pae se lo attende Iris, promessa sposa, si lascia
attirare nella camera della "donna in nero"; e questa, fanatica
giustiziera di futuri campioni, lo accoglie sparandogli un colpo di pistola
che quasi lo ammazza. Certo gli stronca la carriera e quando, sedici anni
dopo, sul campo dei Knigths si presenta un nuovo acquisto, tale Roy Hobbs,
questi è un giocatore ormai fuori età per un esordio eclatante.
Sebbene l'allenatore dapprima si impunti per non farlo giocare, alla fine
Roy riesce comunque ad esplodere per quel campione che è e la squadra
punta diritta verso il titolo. Non importa se tenteranno di corromperlo,
se la vecchia ferita ricomincia a sanguinare: Iris ricompare come "donna
in bianco" tra la folla, consegnando a Roy la paternità di
un figlio ormai sedicenne, frutto dell'antico amore... La fatidica pallina
non può che suggellare la vittoria in campionato, infrangendo i
riflettori dello stadio e costellando il buio di un luccichio irreale.
L'aura è quella del mito e la figura carismatica di Redford, il
ritmo pacato della narrazione, la pastosità dorata del colore ne
rendono ragione, anche se vanno segnalate due "improprietà".
La prima è quella dell'irrisolutezza del tono, solo apparentemente
ottimista, segnato da un'amarezza che nonostante tutto fa capolino, specialmente
nei dialoghi (certamente più in sintonia con il romanzo originale
di Bernard Malamud, in cui, tra l'altro, il lieto fine dello scudetto non
viene "consumato").
"Tu hai il dono, Roy, però quello non basta, bisogna che
lo valorizzi. Tu conti troppo su quel dono e farai niente!", ammonisce,
con lo sguardo al futuro il padre all'inizio. "Non fai più
notizia ragazzo. Avevi un grande dono, ma quello non basta... Sei nato
fallito", gelidamente conclude il giornalista sportivo interpretato
da Robert Duvall, quando sembra che Hobbs non riesca ad uscire da un periodo
di crisi. Tra queste due dichiarazioni sta il senso della vita di Roy Hobbs.
"Cosa è successo di te Roy?", gli chiede Iris allorché
si rincontrano. "La vita non è stata come me l'aspettavo",
taglia corto lui, ma di lì a poco si lascia sfuggire tutta l'amarezza
del proprio fallimento esistenziale: "Ero vissuto con l'idea di
poter essere il migliore di tutti i tempi... potevo essere meglio, pensavo
che avrei battuto ogni record. E dopo, quando passavo per la strada, la
gente si sarebbe voltata e avrebbe detto: quello è Roy Hobbs, il
migliore che sia mai esistito nel baseball". Iris lo consola con
parole di saggia umanità ("Sai, io penso che la gente abbia
due vite: la vita in cui si impara e quella che vivi con ciò che
bai imparato. Con o senza tanti record si ricorderanno di te; pensa a tutti
quei giovani su cui hai influito... ") ma la disillusione brucia
a Roy Hobbs, al di là di ciò che a posteriori ha imparato,
al di là del buono che è riuscito ugualmente a raggiungere.
E' il dramma del senso di colpa per il talento, il dono naturale sprecato
(The Natural è il titolo
originale), è la tristezza per non aver raggiunto l'unico grande
scopo della vita, il successo. A ben guardare siamo proprio di fronte a
due dei cardini dell'identità americana: la cultura religiosa protestante
puritana ( i padri pellegrini del Mayflower), carica di predestinazione
e di sensi di colpa (ed è la carnalità di una donna ciò
che rovina il giovane Hobbs) e il mito del successo, della popolarità
a tutto tondo, ancor più forte, talora, di altri miti americani
(e non solo) come la libertà, l'amicizia, la lealtà, la ricchezza...
Un mito poi essenzialmente urbano, legato cioè alla diffusione di
popolarità che solo la città, nel suo agglomerato umano,
e la tecnologia, nella sua distribuzione d'immagini "vincenti"
tramite i mass-media, possono procurare (non per niente la donna in nero
dell'inizio aveva nel proprio mirino i campioni sportivi resi famosi dalla
stampa!). La natura resta intimamente estranea al progetto mitico del film:
è il catino dello stadio, epicentro metropolitano, il luogo principe
in cui si estrinseca l'epos e proprio l'origine campagnola di Hobbs (uno
dei tanti ragazzi del west) appare come un handicap, nella sua ingenuità
"purista" all'escalation del successo totale. Certo le scene
iniziali (e il richiamo conclusivo) sembrano bearsi dell'agreste serenità
della natura e così pure il feticcio sportivo nasce dall'impatto
delle forze naturali: il fulmine che spezza la grande quercia dal cui legno
Roy ricaverà Wonder-boy, la sua mazza da baseball. Eppure
proprio qui sta la seconda improprietà de
Il
migliore. Il film è a suo agio nell'epica metropolitana,
indugia sapientemente sull'evoluzione del Roy Hobbs-campione tra le maglie
del cinismo sociale, ma risulta incerto proprio nel momento lirico del
rapporto magico con la natura, che è poi il cuore dell'epica classica,
dal mito greco a quello nibelungico.
Le sequenze della quercia squarciata, della costruzione della mazza sembrano
buttate là solo per rendere giustizia al "realismo magico"
di Malamud, tirate via con una cadenza inadeguata al loro pathos intrinseco,
quasi che l'urgenza fosse quella di precipitarsi nel crogiolo urbano, lì
dove solo può realizzarsi l'epica moderna.
Il sopracitato
Strade
di fuoco
(Streets
of Fire) è lo sbocco logico ed esasperato
di questa tendenza: l'ambiente urbano, tra modernità e decadentismo,
è l'ovvio logistico per uno pseudo-western in cui le motociclette
stanno ai cavalli e l'automobile sta al calesse, gli assurdi e scialbi
dialoghi vorrebbero citare la scarna prosopopea degli eroi della frontiera
e qualche folata di buon rock prova a lanciare stimoli nostalgici verso
utopici spazi di libertà ed individualismo.
La piattezza di Streets of Fire, col
suo raro mordente musicale e lo scompaginato ritmo dell'avventura, dà
lustro nel confronto a Il migliore,
ma la riflessione complessiva resta amara.
Da una parte un racconto "infuocato" solo nell'accozzaglia di
scene violente, canzoni spesso mediocri (eccezionali solo le due Nowhere Fast
e Tonight Is What It Means To Be Young, in apertura e chiusura) e luoghi comuni iterati senza criterio
(eppure il vídeoclip-trailer, sulla rock-song migliore e su un oculato
montaggio delle immagini più efficaci, si rivela un piccolo capolavoro
a sé stante!), dall'altra un disegno epico di valori e disvalori
che non trova corrispondenza nella costruzione cinematografica.
Il cinema è anche questo, ma è anche di meglio. Dovrebbe
essere migliore, specie quando una volta tanto (come nel caso del romanzo
originario di Malamud) il soggetto ha un proprio, indiscusso valore: d'accordo
che il vero "sogno americano" è il "cinema fatto
realtà", è la piena coincidenza, anche in appiattimento esistenziale,
tra immaginario e vita; ma come Iris dice a Roy "Odio veder cadere
un eroe, ce ne sono così pochi", così anche a noi
scappa un rimpianto: "Odio veder cadere un buon film, ce ne sono pochi".
ezio leoni -
CM 61
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secondo trimestre 1985
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