Shohei Imamura, la voce
degli shomin
Il significato culturale dei premi nei vari festival
cinematografici sembra chiarirsi e rafforzarsi quando essi si rivelano
stimolo di approfondimento e di divulgazione del cinema stesso. E' il caso
della Palma d'oro assegnata nel 19845 a La ballata di Narayama di
Shohei Imamura
che ha spinto gli addetti al settore alla riscoperta di questo grande regista
giapponese portando all'allestimento (da parte dello staff del Bergamo
Film Meeeting) di una accurata ed efficacissima personale. Il giudizio
sulla personalità autoriale di Imamura che scaturisce dalla visione
della sua opera lo inquadra tra i maestri della storia del cinema giapponese
e contemporaneamente lo contrappone ai grandi che già conoscevamo
quali Kurosawa, Ozu, Oshima ,Mizoguchi. L'attenzione di Imamura non è
rivolta alla cultura ed alla società giapponesi che da sempre costituiscono
il bagaglio immaginifico classico di quel popolo (geishe e samurai, onore
e cerimoniali) bensì alla tradizionale degli shomin (gente comune)
della quale egli si sente parte integrante. Ciò che in pratica a
livello storico e culturale Imamura rivendica è proprio il concetto
di tradizione. Per lui la tradizione 'reale', atavica ed autentica dell'antico
carattere giapponese ha subito una drastica repressione tra il XVII e il
XVIII secolo (il regno degli shogun) per far posto a quella che è
poi divenuta la tradizione 'ufficiale': coatta ed innaturale, costruita
su rapporti sociali forzatamente 'decorosi' e su valori ed idealismi precostituiti.
I due aspetti della tradizione oggi coesistono nella civiltà giapponese
ma Imamura si è affidato il compito di rilevarne, cinematograficamente,
proprio questa facciata più oscura e abietta, costruendo un percorso
cinematografico imbarazzante (quindi poco esportato!), dichiarando il suo
interesse "alla relazione che c'e tra la parte bassa del corpo
umano e la parte bassa della struttura sociale, sulla quale si sostiene
la realtà della vita quotidiana giapponese". Il suo cinema
si anima allora di personaggi emarginati, prostitute imbroglioni e criminali
che dialogano tramite il sesso e il denaro e che si lasciano trasportare
dalle proprie passioni, trovando anzi in tutto ciò l'energia indispensabile
per il loro esistere. Il discorso si estrinseca in almeno quattro opere
fondamentali: Nippon Konchuki (1963), Kamigami no Fukaki Yokubo
(1968), Fukushu Suru Wa Ware ni Ari (1979) e, appunto, Narayama
Bushi-ko del 1983.
Ma già la prima regia di Imamura (Nusumareta
Yokujo - Desiderio rubato, 1958) pur se non si avvaleva ancora
della sua firma in sede di soggetto e sceneggiatura, conteneva le tonalità
ed i suoi temi caratteristici: le pulsioni che si agitano attorno ad una
troupe di teatro-tenda sono non solo quelle del pubblico attento agli ammiccamenti
dello spettacolo (rappresentazioni di Kabuki alternate a balletti e spogliarelli),
ma soprattutto quelle private della troupe stessa con un vivere comunitario
complesso e disordinato, con triangoli amorosi sofferti ed irrisolti.
Ma nel procedere negli anni l'opera di Imamura si fa ancora
più acre e lancinante: in Hateshinaki Yokubo (Desiderio
inappagato, 1958) una storia di traffico di droga ruota attorno ai
contrasti tra quattro uomini accesi dall'avidità di denaro e dalla
sensualità e se in Nianchan - Il secondo fratello,
1959- il respiro si fa più lieve (in una cittadina mineraria del
Giappone meridionale la vicenda di quattro fratelli e sorelle rimasti orfani
propone forti riflessioni sul desiderio di coesione familiare, sul mito
della metropoli e sul difficile confronto tra abitudini di vita diverse:
pur in una costante situazione di avversità e miseria, la vivace
caratterizzazione dei protagonisti e l'ottimismo del soggetto originale
fanno del film una delle opere più 'innocenti' di Imamura), con
Buta to Gunkan (Porci e corazzate, 1961
- edito in Italia come Porci, geishe e marinai) siamo di nuovo ai
margini civili e legali dell'esistenza: bande fuorilegge in conflitto tra
loro e con la polizia locale, un allevamento di maiali finalizzato al commercio
di carne suina con la truppe americane della base navale di Tokyo sono
i cardini di un discorso sul cinismo della società giapponese e
sui suoi rapporti di sudditanza con il mondo occidentale.
"Piango quando racconto della mia vita"
è una frase che esce dalle labbra di Tome, la indimenticabile protagonista
di Nippon Konchuki (Cronache entomologiche del Giappone).
Siamo alla sesta opera ed il cammino autoriale ha raggiunto ormai una certa
completezza: Imamura aveva già iniziato a proporre un'immagine della
donna ben diversa dalla geisha compita, fragile e 'sacrificale'; ora Tome
arriva a incarnare una donna provata ma terribilmente tenace, che supera
via via le proprie perplessità morali per prendere dalla vita tutto
ci che la sua condizione femminile può darle. Il sesso è
quindi desiderio e consolazione e pure strumento primo di guadagno ed emancipazione
in un ambiente dove stupri, incesti, prostituzione ed aborti sembrano rientrare
nella naturalezza del vivere: l'evolversi della storia, con la figlia di
Tome che rimette in gioco le tensioni, le aspirazioni e i compromessi che
la madre già ha vissuto, porta ad un finale solo parzialmente aperto
sulle prospettive di evoluzione e di coscienza delle future generazioni...
Con Kamigami no Fukaki Yokubo (Il profondo
desiderio degli dei) superstizioni e modernità, panteismo e
passioni umane si sviluppano visceralmente nell'ambiente di un'immaginaria
isola a sud-ovest del Giappone: a Kurage gli abitanti sono ancora primitivi,
la leggenda della creazione dell'isola da parte degli dei è ancora
viva e vissuta; specie da una famiglia 'maledetta', che spende la propria
vita scavando un'enorme buca per far rientrare nelle viscere della terra
un grande blocco di pietra, simbolo concreto del disappunto divino per
le scelleratezze degli uomini. In parallelo cresce la vicenda dello sviluppo
tecnologico dell'isola (legata ad una raffineria di zucchero), ma pure
l'ingegnere inviato per i lavori resta avviluppato nella rete di superstizione
e sensualità del luogo. Forte di una potenza visuale inusitata Kamigami
no Fukaki Yokubo si chiude con un rito omicida di straordinario ritmo
e suggestione: una vela rossa che naviga senza più controllo nel
Mar della Cina coniuga esemplarmente il dramma della vita umana e la potenza
del mito arcaico.
Fukushu Suru Wa Ware ni Ari (La vendetta
è mia) è, per contrasto, di una lucidità e di
una rarefazione impressionanti: il protagonista, Enokizu, è un criminale
che ha ritmi omicidi da noir americano, ma che fa trasparire nei suoi eccessi
di crudeltà e sessualità le contraddizioni di quella falsa
cultura che Imamura vuole portare allo scoperto: il mondo che gli fa da
contorno lo subisce e lo detesta proprio come emblema di una amoralità
che non è estraniabile e di facile condanna, ma che resta tessuto
infido della società stessa. Quando alla fine il padre e la moglie
gettono al vento le ossa di Enokizu, queste restano magicamente sospese
nell'aria, monito concreto e angoscioso di una realtà che si vorrebbe
troppo sbrigativamente rimuovere.
Resta, in chiusura, Narayama Bushi-ko (La ballata
di Narayama) che anche all'interno di una personale così esaustiva
colpisce per la sua costante drammaticità e per il suo greve pessimismo.
Nel piccolo villaggio tra le montagne anche i parametri di riferimento
fin qui considerati perdono consistenza; non c'è il contatto con
il progresso come in Il profondo desiderio degli dei, non può esistere
il mercato del corpo come nel mondo "civile" proprio perché
l'isolamento totale della comunità porta la miseria come stato istituzionale
e toglie al denaro la sua connotazione di elemento dinamico della società.
Il sesso perde anch'esso la funzione fin qui enunciata di 'comunicazione
ed emancipazione' e la vita scorre tra bassezze, abbrutimento, cinismo
e disperazione. La coazione a ripetere sembra l'essenza primaria di un'esistenza
del tutto primitiva: quando una famiglia è scoperta a rubare viene
senza pietà sepolta viva dall'assemblea del villaggio; la vecchia
Orin, conscia di essere ormai di peso, convince il figlio a portarla a
morire sulla montagna di Narayama... Si è davvero lontani dai concetti
classici orientali di 'onore e virtù' ed ancor più dai nostri,
occidentali di "carità e redenzione".
La grandezza di Shohei Imamura sta proprio nella sua coerenza stilistica
ed nel lirismo narrativo che riescono a far divenire questo mondo di desolante
"disumanità" indispensabile testimonianza culturale e
momento altissimo di arte cinematografica.
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