da La Stampa (Lietta Tornabuoni) |
Dice la regista di Water, Deepha Mehta, che oggi in India sono ancora milioni le vedove che si sottopongono alle regole della religione indù, secondo la quale il loro destino può essere duplice: venir bruciate insieme con il cadavere dal marito; condurre senza mai risposarsi una vita di privazioni, preghiera e penitenza. La legge civile indiana ha cancellato queste imposizioni che vengono ancora applicate dai religiosi più osservanti. Il film molto interessante e bello è collocato nel 1938, quasi settant'anni fa, quando l'India era ancora una colonia e Gandhi era all'inizio della sua ascesa. Malgrado questo i fondamentalisti indù ne hanno ostacolato nei modi più violenti la realizzazione, come già era accaduto per altri film della regista (pure lei indù): il set a Benares incendiato e attaccato da duemila persone, Deepha Mehta minacciata di morte e le sue foto bruciate pubblicamente, un suicidio di protesta nel Gange. La lavorazione venne interrotta, nonostante il tentativo del governo di difendere i cineasti. Riprese dopo quattro anni, ma nello Sri Lanka. È la storia di una bellissima sposa bambina di otto anni, che alla morte del marito viene rapata, privata di tutto e portata nella casa delle vedove indù dove dovrà trascorrere il resto della sua esistenza. Le vedove d'ogni età hanno tutte la testa rasata e sono vestite di bianco (il colore del lutto), devono parlare solo se interrogate, mangiano poco una sola volta al giorno, dormono in terra, aspettano di morire: una di loro particolarmente bella viene obbligata alla prostituzione per contribuire al mantenimento delle altre. L'arrivo della bambina, con la sua vitalità, affettuosità e ribellione agli ordini, turba la comunità, cambia i comportamenti, capovolge i destini. Nello stile un po' lirico e un po' televisivo del film spiccano per la loro bellezza i paesaggi e le coreografie delle vedove in bianco, a contrasto con le vicende intime dolenti, laceranti. |
da Il Foglio (Mariarosa Mancuso) |
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TORRESINO
gennaio-marzo 2007
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