La battaglia incrociata tra Prospettive
e Settimana della Critica sembra per ora risolversi a vantaggio
della seconda. Un programma più compatto (un film al giorno contro
tre) e, di conseguenza, una vetrina più selezionata e coerente.
Con film magari spiazzanti od ostici (Mullan e Bashirov),
ma
senza le cadute di tono (e di gusto) di un film come Viol@, di Donatella
Maiorca. L'approccio alle nuove tecnologie, la comunicazione via internet,
le chat-line sono un pretesto per un soft-porno neanche tanto soft: Stefania
Rocca entra in contatto con un sconosciuto partner che carica di erotismo
i loro colloqui al computer, la guida ad esperienze di sesso in linea (con
una scena di masturbazione, nella vasca da bagno, decisamente calda), le
invia una provetta contenente sperma, la spinge tra le braccia dell'operaio
che le sta ristrutturando casa. Lei dapprima sta al gioco poi sente la
propria privacy a rischio perché l'amante di chat-line ha scoperto
la sua identità e l'assilla tra sensualità e gelosia. Se
già l'editing cinematografico, tra credibilità informatica
e ammiccamenti sexy, lasciava perplessi, lo sviluppo finale di Viola è
squallidamente convenzionale, inattendibile nella costruzione narrativa,
scorretto nella caratterizzazione (vocale) del misterioso interlocutore.
Dopo le delusioni di Archibugi, D'Alatri e Luchetti, qui con il cinema
italiano abbiamo davvero toccato il fondo.
Per riemergere si può
far conto, al solito, sui giovani autori di lingua anglosassone. John Akomfrah
(Speak Like a Child) si affida al costrutto nostalgico del flash-back
per descrivere l'amicizia e l'amore di Sammy, Billy e Ruby che, ormai adulti,
si ritrovano nei luoghi della loro adolescenza. L'orfanotrofio sulla costa
della Northumbria ormai in abbandono, ma i ricordi di una giovinezza sofferta
e cruenta non lasciano i tre protagonisti, stretti in un triangolo di sentimenti
(e di passate responsabilità) che solo drammaticamente può
essere risolto.
All'incisività
talvolta brutale di Akomfrah si contrappone il tono da commedia di Tony
Gerber che con Side Streets offre cinque sguardi incrociati su una
New York che vive e si anima dell'energia dei suoi abitanti, di un melting-pot
variegato ("con un gettone della metropolitana puoi viaggiare il
mondo, passare da un continente all'altro"), in continua fibrillazione
esistenziale e sociale. E' il giorno più caldo dell'estate e il
tassista indiano Bipin traghetta attraverso la città Sylvie, delusa
aspirante stilista. A casa Bipin deve gestire la tensione familiare conseguente
all'arrivo del fratello Vikram, ex divo cinematografico che poltrisce aspettando
un improbabile contatto con Al Pacino. Per Errol, un nero delle Indie occidentali,
il problema invece è costituito dalla moglie Brenda che gli ha sequestrato
le chiavi della sua scintillante Cadillac, prima ancora che egli abbia
potuto provarla. Anche per Josif, rumeno, i rapporti con la moglie non
sono facili: la loro situazione economica è precaria, lui continua
a perdere soldi con le scommesse mentre l'impiego da macellaio non gli
offre grandi prospettive. E le stesse ambasce accompagnano il suo compagno
di lavoro Ramon, che si finge un manager arrivato per conquistare la bella
portoricana Marison e che non ha neppure i soldi per comperarle un vestito
per il concorso di bellezza. L'idea di Gerber non è solo quella
di raccontare cinque simpatiche storie, ma di costruire un mini-affresco
di personalità, situazioni, realtà umane: "I miei
personaggi sono scatole chiuse e isolate, sia per motivi sociali che etnici.
Quando entrano in contatto per l'amore le fa aprire e mettere in relazione
tra loro. Così come Manhattan, Staten Island, Brooklyn, Queens e
il Bronx sono cinque città distinte che formano una sola città".
Trentaquattrenne, alla sua opera prima, il regista newyorkese tratta con
grande cura l'evolversi dei singoli racconti, li lega con spontaneità
e leggerezza (Sylvie confezione l'abito per Marisol, anche Ramon passa
per il taxi di Bipin; Errol, Brenda e Sylvie si incrociano alla stessa
festa) ed accurato è anche il lavoro del casting: facce e personalità
giuste, a cominciare dalla nostra Valeria Golino che Gerber ha fortemente
voluto per il ruolo di Sylvie. "Cercavo un'attrice che desse la
giusta fisionomia al personaggio di un'europea upper-class. Valeria mi
è sembrata giusta per la parte, è un'attrice straordinaria".
e.l. Il
Mattino di Padova 8/9/1998
|