Une vie
Stéphane Brizé - Francia 2016 - 1h 59’

VENEZIA 7 CONCORSO



  Une vie è una dichiarazione d’amore. Non solo nei confronti di un romanzo, quello omonimo di Guy de Maupassant, di cui il film è l’adattamento. È soprattutto una dichiarazione di fede del regista Stéphane Brizé in un modo di raccontare e nella sua valenza conoscitiva.
Siamo in Normandia, nel 1819. Conclusi gli studi in convento, Jeanne (Judith Chemia) torna nella casa paterna e sposa il visconte Julien de Lamare , che le dona un breve periodo di felicità per poi rivelarsi gretto e soprattutto incline all’infedeltà, con conseguenze drammatiche. La vita di Jeanne si concentrerà allora interamente sul figlio, senza peraltro riuscire a evitare che diventi ancora più egoista e inaffidabile del padre.

Il film colpisce subito per le scelte stilistiche del regista, enfatizzate, rispetto al precedente La legge del mercato, dal genere film in costume. Innanzitutto con la scelta del formato 4/3 vi è subito una evidenziazione della messa in quadro, che abbassa l’illusione referenziale. Il tipo di inquadrature poi (strette, ma di profilo o a mezzo busto) impone allo spettatore una grande vicinanza ai personaggi, negandogli però l’identificazione con il loro sguardo. Questo modifica il rapporto che lega lo spettatore all’oggetto desiderato: lo colloca a distanza ravvicinata, ma gli impedisce l’immedesimazione, costringendolo all’osservazione. Certo possiamo pensare a una scelta registica semplicemente coerente col modello letterario, con la poetica del Naturalismo francese. Ma questa ripresa dei modi del cinema della modernità sembra qualcosa di più.
Costretti a distanza ravvicinata, osserviamo di cosa è fatta una vita, la vita di Jeanne, una vita qualsiasi. Non dei fatti più rilevanti, di cui rimangono solo frammenti. Piuttosto dei momenti magari insignificanti, ma per lei luminosi, a cui si aggrappa. E ancora ricordi dei momenti in cui si è battuta, ma è stata sconfitta o ferita: si dilatano nella narrazione filmica, perché hanno delineato la forma della sua vita.
E a contrasto col tempo della coscienza, viene scandito il tempo della natura, col suo ritmo costante: nel rapporto con il giardino, con l’orto, che Jeanne cura e ama, la protagonista rivela la sua innocenza. La stessa cura e generosità le saranno fatali nei rapporti sociali. Ecco allora che l’osservazione da parte dello spettatore, dapprima sentita come frustrante, via via che gli avvenimenti si fanno più drammatici, si fa sempre più fruttuosa. Grazie alla distanza i meccanismi si rivelano, il senso si fa cristallino. La distanza rivela insomma limpidamente la sua funzione conoscitiva. Ed è all’attualità di questo sguardo che il regista dedica la sua dichiarazione d’amore.

Licia Miolo - novembre 2016 - pubblicato su MCmagazine 41