Che
viviamo in tempi turbolenti è sotto gli occhi di tutti. Lo sa anche
Mohsen Makhmalbaf,
che torna alla finzione dopo anni di documentari con uno dei suoi
lavori più malinconici e vividi. Il veterano autore di
Salaam Cinema, che nel tempo si è
costruito una eccentrica carriera apolide in giro per tutto l’Oriente
(dall’India all’Afghanistan, dalla terra natìa ai lidi sconosciuti di
The President),
ha ancora voglia e forza di raccontare appassionatamente, almeno
quanto di dare ai suoi familiari gli strumenti cinematografici per
esprimere il loro punto di vista sul mondo. Per la sua ultima opera,
Makhmalbaf si avvale della collaborazione in fase di sceneggiatura
della moglie Marzieh Meshkin, anch’essa a sua volta regista, autrice
molti anni fa di un bellissimo esordio, Roozi ke zan shodam-Il
giorno in cui sono diventata donna. Da quando il cinema iraniano è
passato di moda tra i cinefili, si dicono e scrivono un mucchio di
banalità su autori come Makhmalbaf: ma un prodotto come
The President
è capace di risvegliare dal torpore con le armi del lirismo ruvido
quanto sconsolato in cui ammanta il suo (esecrabile?) protagonista.
In un anonimo paese nell’area geografica russo-georgiana (lingua in
cui di fatto il film è parlato da un cast di attori caucasici), dopo
decenni di tirannia il popolo è ormai stanco del Dittatore, che si
permette di far accendere e spegnere le luci della città al suo
nipotino, futuro reggente. Prima a rivoltarsi è la gente di strada,
dopo l’esercito. E Il Dittatore, il Presidente del titolo, deve
mettersi al sicuro prima di perdere anche l’ultimo uomo fedele.
Makhmalbaf concepisce
The President
come una corsa contro il tempo verso la salvezza, rappresentata da un
confine naturale, il mare. Man mano che il Presidente fugge dalla
città, il film vede scoprirsi la sofferenza del popolo oppresso, e
oscurarsi la fierezza di un potente decaduto che fugge ramingo. La
regia non ha fretta, indugia sulle tante anime di genti segnate da
soprusi che sarebbe ipocrita ricondurre ad un uomo solo. La struttura
narrativa chiastica ci mostra prima il Presidente come uomo spietato e
privo di scrupoli, capace solo di pensare alla pellaccia propria e dei
propri (qui e là un po’ repellenti) cari. Ma man mano che la
narrazione procede, attraverso snodi drammatici (magistrale la
sequenza della fuga in limousine tra la folla, in cui il ritmo
accelera violentemente), Makhmalbaf è in grado di scoprire la nudità
del potere di pari passo con la ferocia (e l'ipocrisia: vedi i
collaboratori di palazzo) degli oppressi.
Il contrasto profondo tra città e campagna di questo paese immaginario
in cui si svolge la vicenda, che rimanda anche al paese d'origine del
suo autore, provoca dei notevoli squarci apocalittici, che si
inseriscono armonicamente in un tessuto a metà tra il surreale road
movie e il pamphlet politico. Il risultato è un film atipico,
originale dal punto di vista figurativo, che sa come e dove affondare
quando si presentano i dilemmi morali. E che, in fondo, sa anche
colpire emotivamente lo spettatore, con un finale in grado di scuotere
per come riesce a farci prendere a cuore le sorti di un sanguinario,
lurido dittatore. Che può, come noi, conoscere amarezza e solitudine.
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