Una strada chiamata domani (Bloodbrothers)
di Robert Mulligan - USA 1978

  

Qualcuno ha conglobato Una strada chiamata domani nel filone operaio sindacale dell'ultima Hollywood (Norma Rae, FIST, Blue Collar), ma fare dell'ambiente il tema sembra voler svilire questa diciassettesima opera dello sconosciutissimo (a livello di mercato italiano) Robert Mulligan. Nato a New York nel '25 ed in attività dal '57 (Prigioniero della paura), Mulligan sente forse ancora la complessità dei propri studi teologici e si impegna a scavare nell'animo dei suoi personaggi, contrappuntando il loro disagio nella società moderna con una regia realisticamente cruda, ma stemperata da un profondo senso umano.
Ecco così che con questo suo penultimo lavoro (gli ha fatto seguito
Lo stesso giorno il prossimo anno, anch'esso in programmazione italiana) egli rivolge lo sguardo all'insolita personalità di Stony (Richard Gere) "sensibile e pieno di fantasia" anche se cresciuto in un ambiente sfacciatamente squallido: immigrati italiani della seconda generazione Tommy De Coco (Tony Lo Bianco), il padre, e lo zio Ghubby (Pau] Sorvino), legatissimo al nipote, spendono le giornate al bar, vivono da smargiassi, appagati dalla loro professione di elettricisti edili ("l'uomo che non é fiero del proprio lavoro non é fiero nemmeno di se stesso") e dalla propria posizione di agiati piccolo borghesi proletari, tradiscono le mogli con la sicurezza dello stallonismo latino. Sono l'emblema del maschilismo più gretto e chi ne fa le spese è la famiglia. Maria, moglie di Tommy, è ridotta ad un fascio di nervi, ormai sfiorente nei fisico e quasi tarata nella personalità, e sfoga le sue frustrazioni ed insicurezze sul piccolo Albert, il quale vive una specie di incubo adolescenziale che sfocia in una ipersensibilità ed una anoressia tali da renderlo smunto e denutrito. Stony stenta ad aprire gli occhi sulla situazione che lo circonda (tra l'altro è combattuto dai propri problemi sentimentali), ma quando Albert finisce in ospedale per i maltrattamenti detta madre non solo reagisce interiormente, ma scopre che la sua apertura di carattere lo indirizzo verso un lavoro diverso da quello dell'elettricista specializzato: l'animatore infantile in un ospedale.
E' facile immaginare la reazione di papà Lo Coca, il quale ha già procurato un tesserino del sindacato per Stony: non vuoi credere ad un figlio impegnato in un "mestiere da donnicciola" e tanto fa che quello prima accetta di malavoglia un periodo di prova in cantiere, poi si fa addirittura coinvolgere nella mentalità del padre ("dagli il meglio di te e vedrai che questo lavoro ti ricompenserà bene" ) e promette di seguirne le orme.Ma i consigli 'rivoluzionari' dell'amica (poco seria ma certo aperta di vedute e di animo) e soprattutto un nuovo incidente familiare (il pestaggio a1sangue del padre alla madre, che ha provato, con un patetico tentativo di infedeltà, a rendergli la pariglia) scuotono definitivamente il giovane: con il piccolo Albert tra te braccia, Stony lascia casa ed il Bronx, avventurandosi verso una nuova vita, non facile nè sicura, ma almeno scelta di persona e difficilmente più abbrutente di quella passata.
Con uno splendido Richard Gere (già protagonista teatrale di
Grease e segnalatosi in In cerca di Mr. Goodbar, I giorni del cielo e Janks) ed un'ottima pennellata nei ritratti di contorno di Lo Bianco e Sorvino (ma vanno segnalate anche Lelia Goldoni - la madre - e Marilu Henner - l'amica Annette), Mulligan non fa certo il capolavoro, ma un gran bel film si. E non soltanto per le qualità interpretative, stilistiche e narrative, ma pure per un'insolita "filosofia' che sta al di sotto del titolo originale Bloodbrothers (dal romanzo di Richard Price). I fratelli di sangue non sono tanto Tommy e Chuby, né Stony ed Albert, bensì quanti nel mondo credono nella fraternità d'animo ed accettano di aiutarsi a vicenda. Nell'efficace episodio dell'asilo, a contatto con i bambini, coi quali comunica con una genuinità dirompente, Stony riassume in una favola il suo programma di comportamento umano: "C'è un grande capo indiano, morto tanti anni fa, il cui spirito è sempre pronto a soccorrere i suoi 'ratelli di sangue (le formalità per il patto sono semplicemente un verso ed un gesto con la mano). Cercate di fare più adepti che potete e se vedete un vostro fratello in difficoltà non aspettate che arrivi il capo indiano - potrebbe essere impegnato altrove - intervenite voi ad aiutarlo, tra 'fratelli di sangue' bisogna sempre darsi una mano"...

e.l. CM 36 - quarto trimestre 1979