Sembra
qui opportuno segnalare due film-documentario molto interessanti
proiettati nell'ambito della sezione Orizzonti :
Staub (Polvere) del
tedesco Hartmut Bitomsky e
Kagadanan sa banwaan ning mga engkanto (Death
in the land of Encantos) del filippino Lav Diaz.
Nel primo Bitomsky, che oltre a regista è anche studioso di teoria e
storia del cinema, saggista e scrittore, vince una sfida filmando il
più piccolo soggetto visibile di cui possa trattare un film: la
polvere. Sfida perfettamente riuscita in quanto la sapiente alternanza
di punti di vista dai quali la materia viene affrontata, da quello
della casalinga ossessionata dalla lotta per sconfiggerla a quello di
scienziati, meteorologi, astronomi e artisti, cattura lo spettatore
all'interno di questa nuvola dentro la quale inconsapevolmente
viviamo, aprendo la strada a una riflessione sulla sua esistenza, che
va al di là di considerazioni puramente ecologico-catastrofiste.
La polvere è in primo luogo materia indesiderata. Essa costituisce un
problema igienico, medico, estetico. Ogni secondo vengono prodotte
tonnellate di polvere: emissioni di fabbriche, demolizioni di palazzi,
cave di pietra sprigionano nell'aria immense quantità di particelle,
parte delle quali si innalzano nell'atmosfera e vagano fino a 4000
chilometri di distanza.
Ma la polvere è però anche materia primaria. Fa il cielo blu e
permette la formazione delle nuvole. Quando la polvere entra in
collisione con la polvere nascono pianeti e galassie. La polvere sta
all'inizio dell'evoluzione e alla sua tecnologica fine si colloca lo
spazio sterile.
Ciò che emerge dal film è una cultura della polvere come zona di
sovrapposizione tra il sapere antropologico e quello filosofico. "La
polvere segna i limiti dello spazio in cui possiamo ancora scoprire in
prima persona chi siamo e da dove veniamo, cosa facciamo e cosa
possiamo o dovremmo essere. Non finiremo mai di occuparcene. La
polvere non se ne andrà mai." afferma il regista, che chiude il suo
film con l'immagine, piuttosto agghiacciante, di un ambiente
completamente asettico (all'interno di una fabbrica di microchip),
costruito apposta perché la polvere non possa entrarvi.
Kagadanan sa banwaan ning mga engkanto
del regista filippino Lav Diaz, considerato il padre ideologico del
Nuovo Cinema Filippino, è una lunga e dolente rappresentazione dei
disastri provocati nel suo paese dal tifone Reming nel novembre del
2006.
Nella prima parte la macchina da presa si muove molto lentamente,
soffermandosi sulla devastazione dei villaggi e della natura, con
immagini quasi fisse, ma che da subito colpiscono per l'accuratezza
dell'inquadratura e per la bellezza della fotografia, depurata dei
colori. Il modo in cui l'occhio del regista si posa su queste immagini
apocalittiche sembra voler cercare la bellezza anche nella morte,
ipotesi suffragata dall'inserimento inaspettato di una lunga
inquadratura in cui la macchina da presa si muove con lo stesso ritmo
lento sul corpo nudo di una bellissima ragazza che dorme in un letto.
Centrale nel film è infatti la riflessione sul tema della morte della
bellezza, dell'estetica e su come la bellezza può trasformarsi nel suo
esatto contrario.
Su questo avvio documentaristico Diaz a un certo punto innesta una
storia: quella del poeta Benjamin Agusan, che dalla Russia dove vive,
insegnando all'università e dove ha lasciato una donna di cui è
innamorato e ha perso un figlio, decide di tornare al suo paese natale
Padang, per seppellire i genitori, la sorella e una donna che aveva
amato. Il ritorno a casa nelle amate e odiate Filippine gli permetterà
di curare le sue ferite e di metabolizzare i suoi dolori.
"La visione e l'estetica del film affrontano, in ultima analisi, il
tema delle pressanti questioni in cui si dibatte la società filippina.
La ricerca infinita della redenzione è un dono e una maledizione al
tempo stesso....l'uomo combatte per un ideale. Questa battaglia
rinnova perennemente nell'uomo la sofferenza e alimenta, quindi,
continuamente, la ricerca della redenzione dalla sofferenza... Questo
è il tema attorno al quale gravitano tutti i miei film. L'arte è parte
di questa battaglia."
La durata inconsueta del film (9 ore) ne renderà sicuramente
difficile la distribuzione: non c'è che da augurarsi che sia possibile
vederlo in DVD, in quanto una delle opere più interessanti e
innovative sul piano del linguaggio, viste a Venezia.
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