Una
pianura piatta disegnata unicamente dai mulini a vento, un paese minerario
della Sassonia, tre anziani minatori, nel giorno del pensionamento,
commossi dalle canzoni di commiato dei compagni di lavoro e perplessi
di fronte al regalo di addio: tre orribili lampade ricavate proprio
dal materiale che presumibilmente avevano estratto per tutta la vita.
Un inizio, quello di
Shultze Gets The Blues,
che, sia per quanto riguarda la situazione che il contesto ambientale,
crea delle aspettative di un certo tipo sul possibile sviluppo narrativo,>>
aspettative che vengono però disattese non appena il regista ci fa
conoscere più da vicino i tre personaggi, che, con la loro laconicità
alla Kaurismaki, comunicano simpatia più con la gestualità e la fisicità
che con le parole.
Il passaggio continuo da un registro malinconico e a volte drammatico
a uno ironico e a volte comico è la cifra stilistica di questo film
equilibrato, gradevole e interessante, che giustamente è stato
premiato per la regia. L’equilibrio con cui il regista conduce la
narrazione è dato dalla sua capacità di rappresentare la drammaticità
delle situazioni attraverso l’ “umorismo” inteso in un’accezione quasi
pirandelliana, creando una miscela di tristezza e comicità,
soprattutto nel delineare il personaggio di Schultze, che ad alcuni ha
fatto pensare a Buster Keaton. “Il mio scopo era quello di trovare
una vena malinconica che non fosse mai tragica”, ha dichiarato
Shorr alla conferenza stampa.
La gradevolezza è data dalla bellissima fotografia (Schneppat) e dalla
recitazione degli attori: è un film di emozioni che passano attraverso
gli attori, la storia, ma anche attraverso l’occhio e il modo in cui
il regista ci fa guardare i paesaggi della Germania e della Louisiana
così stranamente affini. Ed è interessante il modo in cui il giovane
regista di Brema, pur con la consueta leggerezza, spazia da temi di
carattere intimistico come la vecchiaia, la morte, il viaggio di
conoscenza, a temi di tipo sociale, in quanto ci mostra un volto della
Germania post-caduta del muro di Berlino e dell’America, che raramente
capita di vedere al cinema. A detta di Schorr non è tanto la
situazione attuale della Germania, con le sue disuguaglianze sociali e
le sue aree di degrado e arretratezza culturale, che gli interessava
rappresentare, quanto la riconoscibilità di situazioni analoghe in
ogni parte del mondo anche quello ricco per eccellenza come gli Stati
Uniti appunto.
La vicenda del film si sviluppa in due parti. La prima interamente
ambientata in Germania ci presenta il paese di minatori dell’alta
Sassonia e le piccole realtà quotidiane dei tre amici pensionati, tra
cui emerge la figura di Schltze che divide le sue giornate tra le
visite all’ospizio dove è ricoverata la moglie e dove fa amicizia con
un’altra ricoverata, che per prima sembra suggerirgli l’esistenza di
mondi diversi dal loro e serate all’osteria con gli amici o in casa da
solo con la sua fisarmonica. La rottura dell’equilibrio avviene
quando, in una delle più belle sequenze del film, casualmente Schultze
sente alla radio un brano di musica blues cajun, che inizialmente
rifiuta, ma da cui poi viene attratto sempre più, al punto che la sua
fisarmonica sembra portarlo da sola ad abbandonare le arie di polka e
a suonare solo le note sentite alla radio. Nonostante il rifiuto dei
suoi concittadini per quella “musica da negri” Schultze viene scelto
per rappresentare il paese alla Fiera del Wurstel che si svolgerà in
una cittadina del Texas gemellata con il suo.
Qui comincia la seconda parte del film che racconta il viaggio di
Schultze negli Stati Uniti dal Texas, dove incontra una comunità di
tedeschi immigrati ancora più conservatori dei suoi concittadini e
altrettanto nostalgici delle vecchie polke, alla Louisiana, dove
giunge scendendo il Missisipi tutto solo su una barchetta e dove alla
fine troverà il luogo di origine di quella musica che aveva dato il
via al suo bisogno di conoscere un mondo diverso dal suo. Non importa
se al momento di conoscerlo Schultze (per l’emozione, la
stanchezza...?) morirà, “così succede: un giorno sei vivo e il giorno
dopo non ci sei più” gli aveva detto un’infermiera alla casa di
riposo. Anche della morte, della fine del viaggio si può parlare con
leggerezza, senza nulla togliere alla sua drammaticità..
Cristina Menegolli -
MC magazine 8
-
ottobre/novembre 2003
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