Il mondo visto
dall'alto, senza frontiere, unica e meravigliosa alternanza di ghiacci e
deserti, un set infinito che capta i paesaggi di John Ford e la Grande
Muraglia, conquista i cieli di Manhattan nel raggelante flash sulle Twin
Towers e sfiora la Tour Eiffel, tutto attraverso lo sguardo del Popolo
migratore, gli uccelli, seguiti nel loro vagabondare dalla macchina da
presa volante di Jacques Perrin.
Capolavoro unico, impresa grandiosa
dell'attore-produttore francese, che già con
Microcosmos, le peuple de l'herbe
(1976) aveva restituito il silenzio alle creature aliene del pianeta,
Il popolo
migratore,
è un film «muto», o quasi, avventura alata dove la sapienza scientifica,
il cinema e la poesia si fondono in un tutt'uno lisergico. Gli operatori
sul deltaplano fanno da battistrada alle anatre imprintate (ma ci sono
anche esemplari selvaggi), che seguono i loro «simili», gli amici, i
parenti, gli uomini. Il cast infatti può dirsi dis/umano, fuori da ogni
intento didattico e lontano migliaia di chilometri (la sterna codalunga
batte ogni record nella sua migrazione: 36.000 km) dai documentari tv
drammatizzati ad arte.
Il popolo migratore è una sinfonia di
immagini e di suoni, transiti onirici, rivelazione di un pianeta che
nessun satellite ci restituirà mai così avvolgente. Musica originale di
Bruno Coulais, Orchestra Bulgara, e voci di Nick Cave e Robert Wyatt, il
più sensibile interprete dei pennuti in viaggio (il suo disco Shleep lo
mostra in copertina mentre dorme su una colomba in volo). Fuori campo,
poche parole accompagnano le grandi migrazione di gru e aquile, pellicani
e tortore, fenicotteri e albatros. Nella versione italiana (distribuisce
Lucky Red) pochi tocchi in più (dialoghi aggiunti di Danilo Selvaggi)
enfatizzano tensione e colore. «La promessa del ritorno è stata
mantenuta...» dice alla fine Jacques Perrin, che ha seguito le
formazioni geometriche tra nuvole e pioggia seguendo il sole e le stelle,
riferimenti astronomici degli uccelli, navigatori infaticabili sulle rotte
verso l'emisfero nord a primavera, dove si riproducono. Mentre l'autunno
li fa volare in direzione sud, oltre ogni limite. Scolpiti nel cielo, gli
uccelli diventano icone della Terra, testimoni della sua solitudine,
mentre gli uomini concentrati negli insediamenti urbani sembrano i veri
estranei, dissociati da questi angeli, presi di mira dai fucili dei
cacciatori. Il film - una coproduzione europea - è sostenuto dalla Lipu
(lega italiana protezione uccelli) e dal Wwf, che hanno avviato un
progetto per la raccolta fondi contro il bracconaggio, in particolare per
i campi dello stretto di Messina e del bresciano, i più a rischio, dove
gruppi di sorveglianza presidiano il territorio. La nuova legge che
prevede l'estensione della caccia anche nei parchi naturali - in linea con
questo governo pronto a vendere i beni culturali - ha già prodotto
disastri e comportamenti violenti tra i cacciatori. Militanti della Lipu
sono stati aggrediti e sequestrati proprio in quelle zone.
Il popolo
migratore insegna che un uccello non conosce confini, mentre adesso
ogni regione avrà la sua «licenza di uccidere» e la tortora dovrà imparare
a non sorvolare mai il Veneto, per esempio. Intanto, vediamoli passare sul
grande schermo incantato di Jacques Perrin.
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