Perceval le gallois
Eric Rohmer -
Francia 1978 - 2h 18’ |
Uomo
di lettere prima che cineasta,
Eric Rohmer porta sullo schermo una sintesi del romanzo scritto nel XII secolo dal
poeta di corte Chrétien de Troyes, in cui si narra d'un cavaliere errante
smarritosi in un labirinto d'avventure e infine indotto al pentimento da
un monaco eremita: opera che con le aggiunte posteriori conta 63.000 versi
e ha fatto sudare generazioni di filologi, ma qui ridotta a poco meno di
due ore e mezzo di spettacolo squisito.
Partito dall'idea giustissima che ogni interpretazione realistica della
materia medievale è un falso storico e un abbaglio estetico, Rohmer va
tutto sulla messinscena teatrale collocando le figure umane e cavalli in
carne e ossa su uno sfondo scenografico di stucchi e smalti che grazie a
sagome mobili finge di volta in volta la corte di re Artù, castelli,
chiese e foreste. I personaggi recitano in ottonari (l'edizione italiana
si vale delle didascalie), talvolta parlano di sé in terza persona, e un
gruppo di musici con strumenti d'epoca fa da coro. Il tutto è molto
leggiadro e qua e là spiritoso per il sorriso con cui Rohmer dà a Perceval
il carattere di un sempliciotto. La finzione teatrale è corretta dalla
verità degli oggetti e delle maglie di ferro indossate dai personaggi, la
memoria della pittura bizantina e gotica s'intreccia alle grazie del
surreale, la poesia dei trovatori si sublima nella raffinatezza del gioco
mentale. Per cui ci si trova rapiti, nel bel mezzo dei nostri tempi
plebei, in un soave carosello di rime e gesti primitivi, stilizzati con
assoluta coerenza, e si è grati a Rohmer di quest'altro piccolo miracolo
d'intelligenza e di gusto. |
Giovanni Grazzini - Il
Corriere della Sera |
Tratto da Perceval ou le Conte de Graal
di Chrétien de Troyes (1130-85), il primo
romanziere d'Europa. Come l'ingenuo Perceval (F. Luchini) abbandonò la
madre per raggiungere la corte di re Artù (M. Eyraud), diventare cavaliere
e andare alla ricerca del Graal. I suoi incontri e gli insegnamenti che ne
trasse... Rohmer racconta soltanto una parte dei 9234 ottonari del poema
romanzesco, ma ne mantiene lo sdoppiamento in 2 storie: quella di Perceval
viene abbandonata per seguire le avventure di Gauvain-Galvano (A.
Dussollier) con cui si passa dal mondo della cavalleria e della courtoisie
a quello del lavoro operaio, mercantile, borghese. Con l'episodio della
Passione si torna a Perceval e su di lui si conclude. Film unico nella
storia del cinema che lascia lo spettatore ammirato e freddo, ma non
annoiato. Il suo fascino nasce specialmente dall'aspetto figurativo,
dall'organizzazione dello spazio che intende reinventare quello delle
miniature e del teatro medievale, affidata alla meravigliosa fotografia
(senza ombre) di Nestor Almendros. Il regista ha semitradotto il francese
arcaico di Chrétien de Troyes, mantenendo gli ottonari e il procedimento
del discorso indiretto: i personaggi parlano di sé stessi in terza
persona. Una parte dei versi è cantata o salmodiata su musiche medievali,
rielaborate da Guy Robert, con cori aggiunti da Rohmer. Luchini e C.
recitano una recitazione, uno dei tanti modi di straniamento cui si
ricorre per inserire autentici costumi, corazze, armi e il loro peso in
uno spazio stilizzato e allusivo. Il risultato è di gusto rigoroso e di
squisita raffinatezza, ma, insieme, di trasparente semplicità come nei
racconti infantili. Distribuito in Italia nel 1984 con sottotitoli. Un
film per “felici pochi”.
|
Il Morandini -
Dizionario dei Film |
Perceval incontra in una foresta un gruppo di cavalieri armati di tutto
punto e ne resta affascinato. Orfano di un cavaliere di razza celtica,
poco più che adolescente, natura ingenua ed integra, egli è stato allevato
dalla madre lontano da ogni idea di imprese cavalleresche. Ma egli
desidera recarsi alla corte del leggendario Re Artù, volendogli chiedere
l'investitura. Sua madre lo lascia partire con dolore, dopo avergli
vivamente raccomandato di proteggere vedove e fanciulli, di non reclamare
dalle donne nulla più che un bacio ed un anello, di ascoltare sempre i
consigli di uomini saggi e dabbene e, allo scopo di evitare risposte
pericolose, di chiedere agli altri solo il minimo necessario. Perceval
parte e la madre sviene davanti alle porte della città. Comincia così la
serie delle avventure del "fanciullo selvaggio", che pare assistito da
singolare fortuna. In una tenda sperduta, bacia una fanciulla, ne prende
l'anello ed il cibo del suo innamorato - l'Orgoglioso della Landa - ;
proprio davanti al castello di Re Artù, sfida e disarciona il temuto
Cavaliere Vermiglio, ne prende la lancia e si fa investire cavaliere,
giurando a se stesso di vendicare una dolce ancella che, solo per avergli
sorriso, viene schiaffeggiata dall'invidioso Siniscalco Kèu. Si ferma,
quindi, nella città di Beaurepaire, dove la dama Biancofiore lo accoglie e
rifocilla: Perceval sfida e batte in torneo il malvagio Re Aguingueron,
che aveva cinto di assedio le mura, nonché un altro Cavaliere, Clamadeu.
Altro importante incontro quello con il Re Pescatore, che lo accoglie a
palazzo: Perceval, tra un banchetto e un torneo, assiste ad una insolita
processione, durante la quale dei paggi recano sia una mirabile lancia da
cui cola sangue, sia la sacra coppa del Graal. Ma il giovane cavaliere,
timoroso di far domande, non afferra il misterioso significato di tale
incontro e riparte verso nuove gesta. Incontra ancora così l'Orgoglioso
della Landa, che batte, ma non uccide, per inviarlo invece alla Corte di
Re Artù a testimonianza di sé e quasi a risarcire la gaia pulzella
ingiustamente schiaffeggiata. A questo punto si incrociano ed alternano
con le imprese di Perceval le gesta di Gauvain, altro e più adulto
Cavaliere, anch'esso impegnato in tornei cortesi ed in servizio di pietà e
lealtà nella città di Escavalon. Dopo cinque anni di continuo errare e di
perdita della memoria Perceval incontra ancora il Re e, finalmente, nel
giorno del Venerdì santo, un gruppo di penitenti che lo invita a deporre
le armi, nonché un eremita, al quale chiede di confessarsi. Gli viene
detto che la madre è morta, perchè mai più Perceval è tornato a lei, che
il Re Pescatore e l'eremita che gli parla sono ambedue suoi zii ma,
soprattutto, che egli ha fatto male a non porre nel momento giusto l'unica
essenziale domanda, quando vide con i suoi propri occhi la Sacra Lancia ed
il Graal: la coppa in cui Giuseppe d'Arimatea raccolse il sangue di Cristo
e nella quale sono conservate le ostie, unico alimento del morente Re
Pescatore. Il dolore ed il pentimento di Perceval sono così sinceri, che
egli, rivivendo la Passione e Morte del Signore, si identifica con l'Uomo
crocefisso. Fatta così la scoperta della sofferenza, non resta a Perceval
che partire per la sua più ardua ed affascinante impresa, questa volta non
più cavalleresca, ma spirituale: il ritrovamento e l'adorazione del Graal,
di cui la leggenda vuole che egli sia diventato il custode supremo. |
Chi, letto il soggetto del film, si ripromettesse di vederlo ricavandone
gli stessi esiti e godimenti che offrono pellicole quali Ivanhoe,
La spada nella roccia, o, più recentemente, Excalibur -
tanto per fare qualche esempio - rischierebbe una forte delusione. Lo
stesso, eppur notevole, Lancelot du Lac di Bresson è totalmente
differente, quanto a finalità, taglio e impaginazione. Nessun raffronto,
per concludere, anche con altre opere di Eric Rohmer (La Marquise d'O).
La fedeltà di Rohmer al poema ed alla essenza letteraria dell'opera di
Chrétien de Troyes è esemplare ed assoluta. Il film (che, del 1978, esce
solo ora in Italia) è prima di tutto teatro, e teatro ben datato per la
stessa scelta dei 'luoghi deputati', nonché nel movimento, azioni e
ragionamenti dei singoli personaggi. Teatro infine che, dal punto di vista
del decoro scenico, con palese evidenza si richiama alle meravigliose
miniature di codici sacri e profani di cui la Francia è ricca, talché par
di sfogliare con dita da amatore un ricchissimo palinsesto, dove l'oro, il
carnicino e i lapislazzuli la fanno da padroni. Miniature, dunque, oppure
le celebri 'Trés riches heures du Duc de Berry', quando non anche
mirabili lamine di Limoges dove tornei e banchetti, foreste e cavalli,
attendamenti e castelli appaiono espressi in smalti fra i più preziosi.
Questo conferisce ovviamente a tutto il film una sorta di estatica
fissità, scandita, peraltro, nel susseguirsi delle cavalleresche imprese,
sia dalla accattivante bellezza di un francese arcaicheggiante (ma il film
ha sottotitoli ben chiari) sia da una musica di delicate e talora ingenue
nervature, sapientemente ricostruita (da Guy Robert) su melodie originali
del XII secolo. Ne vien fuori, nel contesto, un Medio Evo leggendario,
formalmente impeccabile e smagliante, fedele alla natura romanzesca del
grande Chrétien de Troyes, cantore in migliaia di versi delle più belle 'chansons
de geste': una teatralità essenziale (cinque querce di metallo sono la
foresta, una linea cilestrina il mare, un portale e due torri di tre metri
il castello e così via), dove la sommarietà delle linee tutto dice e
sintetizza. Restano vivi le persone ed i cavalli, anche se il racconto,
scevro di tensione drammatica, si articola su di una affabulazione e
gesticolazione sempre discrete, quasi astratte, di sorprendente efficacia.
Perceval è un 'naif' è il 'puro folle', stupefatto davanti ad un'armatura
rilucente, ma mai stupidamente attonito, adolescente ancora ignaro, ma già
desideroso di agire, integro senza spigolosità e ricco di quel buon senso,
che lo fa indubbio archetipo di Giovanna d'Arco, di Sigfrido e del suo più
tardo erede, il Parsifal wagneriano. Perceval è già un poco l'eroe
romantico, che ha sulla punta della lancia un ideale di sfida e di
vittoria (ma senza cattiveria), e, sotto il giaco di ferro, lo spirito di
servizio, la fierezza e la lealtà dei Cavalieri della Tavola Rotonda. Il
film è la storia di una iniziazione. un susseguirsi di imprese e di tornei
cortesi, con accadimenti di vario timbro e di differente spessore. Ma
Perceval non sarebbe, in definitiva, che un eroe profano, se dopo un
quinquennio di trasmigrazioni e di 'sonno della memoria', non chiedesse il
perdono. Troppo ligio agli affettuosi e trepidanti precetti della madre,
il Nostro ha dimenticato di fare al momento giusto la domanda più
importante. Implicato negli ardori, negli ideali e anche nelle
piacevolezze delle imprese cavalleresche, gli e mancato il colpo d'ala, la
scoperta del dolore e di una Croce, non più solo dipinta sullo scudo,
quanto vissuta ed assunta emblematicamente come nuova insegna e dimensione
di vita. Nel rivivere appunto, quasi in uno psico-dramma (che nel film è
una pagina magnifica) il supplizio e la morte dell'Uomo crocifisso, nella
crisalide di acciaio dell'eroe profano si individuano i primi fremiti
dell'eroe cristiano. Perceval così simbolizza un secolo, una società
feudale che finiscono, nel preannuncio di un altro secolo il XIII - in cui
gli ideali soprannaturali saranno emergenti: il più grande secolo
religioso del Medio Evo, di cui cattedrali e mistici, San Tomaso e Dante
saranno le vette vertiginose. Chrétien de Troyes è morto prima di arrivare
al suo decimillesimo verso, ma al termine del film, quando Perceval,
pentito e riscattato dal dolore, parte per cercare il Graal, di cui il
destino più che la leggenda lo vuole custode e difensore, né lande, né
mari, non cavalieri erranti, ne tornei, né foreste di sorta saranno capaci
di frapporre ostacoli alla sua più ardua ed esaltante impresa. Grande
fortuna per Rohmer l'aver incontrato in Fabrice Luchini l'interprete
ideale per stupori, ingenuità e purezza, con quel suo sguardo, fra lo
stordito ed il curioso, al limite dello stralunato, in quell'incessante
girovagare sempre nella stessa foresta e per le stesse lande, bussando a
porte che sempre sono le stesse: fino ai cinque, insondabili anni di oblio
e alla drammatica lucidità della Passione che precede il fotogramma
conclusivo, con l'uomo ed il suo cavallo di nuovo in marcia verso la linea
azzurra dell'Infinito. Opera raffinata e di alta poesia, ricca di valori
etici, alla quale nuoce in verità solo qualche digressione (le avventure
di Gauvain), non vi è dubbio che il film esige un certo impegno,
coinvolgendo esso lo spettatore più dal lato intellettuale, che da quello
emotivo. Ammirare con rispetto miniature preziose, gustando il fresco e
anche ironico contrappunto dei cicalecci delle damigelle di una corte
feudale, forse non è da tutti. Ma 'questo' Medio Evo è e resta pur sempre
la nostra infanzia incantata. Un mare dipinto sul fondale, alcune querce,
un castello di legno e, lì davanti, immoti o frementi, un cavallo e un
uomo in lotta per un ideale possono ancora bastare ai nostri sogni, ai
sogni di tutti: nella sua essenzialità, il film conduce tutti al recupero
della più bella, perduta stagione.. |
Segnalazioni
cinematografiche vol. 96 - 1984 |
promo |
Come l'ingenuo
Perceval (F. Luchini) abbandonò la madre per raggiungere la corte
di re Artù (M. Eyraud), diventare cavaliere e andare alla ricerca
del Graal. I suoi incontri e gli insegnamenti che ne trasse... La
fedeltà di Rohmer al poema ed alla essenza letteraria dell'opera
di Chrétien de Troyes è esemplare ed assoluta. Il film (che è del
1978) è prima di tutto teatro, e teatro ben datato per la stessa
scelta dei 'luoghi deputati', nonché nel movimento, azioni e
ragionamenti dei singoli personaggi. Teatro infine che, dal punto
di vista del decoro scenico, con palese evidenza si richiama alle
meravigliose miniature di codici sacri e profani di cui la Francia
è ricca, talché par di sfogliare con dita da amatore un
ricchissimo palinsesto, dove l'oro, il carnicino e i lapislazzuli
la fanno da padroni. Miniature, dunque, oppure le celebri 'Trés
riches heures du Duc de Berry', quando non anche mirabili lamine
di Limoges dove tornei e banchetti, foreste e cavalli,
attendamenti e castelli appaiono espressi in smalti fra i più
preziosi. Questo conferisce ovviamente a tutto il film una sorta
di estatica fissità, scandita, peraltro, nel susseguirsi delle
cavalleresche imprese, sia dalla accattivante bellezza di un
francese arcaicheggiante sia da una musica di delicate e talora
ingenue nervature, sapientemente ricostruita (da Guy Robert) su
melodie originali del XII secolo. Ne vien fuori, nel contesto, un
Medio Evo leggendario, formalmente impeccabile e smagliante,
fedele alla natura romanzesca del grande Chrétien de Troyes,
cantore in migliaia di versi delle più belle 'chansons de geste':
una teatralità essenziale (cinque querce di metallo sono la
foresta, una linea cilestrina il mare, un portale e due torri di
tre metri il castello e così via), dove la sommarietà delle linee
tutto dice e sintetizza. |
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LUX
- serata gratuita - 17 giugno
2010
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