Ci
troviamo a Monaco nei primi anni settanta del secolo scorso. Ali è un
giovane operaio marocchino che come molti si è trasferito in Germania per
lavoro. In un bar dove è solito ritrovarsi coi colleghi conosce per caso
un’ attempata signora tedesca. I due iniziano a vedersi spinti da una
comune solitudine, e prende corpo così un rapporto che si intreccia con le
loro vite. In seguito a una serie di circostanze si sposano ma la
convivenza non è semplice per l’opposizione della famiglia e dell’ambiente
in cui vivono.
Le coppie di etnie differenti non vengono ancora viste di buon occhio e
molteplici sono le difficoltà da superare. A un certo punto le cose
sembrano cambiare quando la gente pare accettare questa loro scelta ; però
ora è il loro male di vivere ad emergere; Ali si chiude in sé, frequenta
un’altra donna, e comincia a condurre una vita sregolata. Ma il suo cuore
appartiene ormai alla moglie e sarà questo trambusto emotivo a riunirli
nel finale in ospedale per l’ulcera da stress di Ali, di nuovo insieme
vicini in una realtà che li consuma...
L’angoscia che si respira fin dall’inizio può dirsi la vera protagonista
del film. Le immagini, come spesso accade nei lavori di
Fassbinder, parlano da sole e fanno da
cornice all’azione dei protagonisti e ci comunicano significati oltre che
sensazioni. Ben studiati sono i rapporti tra i vali elementi della storia
che si sovrappongono, e si completano. Fassbinder è stato paragonato a
Pasolini è si può affermare con certezza che ne ha ben assimilato la
lezione nella fissità di alcuni primi piani che ci riportano alla storia
dell’arte. A una attenta analisi possiamo constatare che tutto è
funzionale ad aprire un varco sulla nostra interiorità e a farci porre dei
quesiti importanti e a volte imbarazzanti. |
Nell'intento
di abbandonare lo strumentalismo delle occasioni narrative e la
predeterminazione della messa in scena, Fassbinder è aiutato dalla
rilettura di alcuni film di Douglas Sirk, grande costruttore di melodrammi
immigrato a Hollywood dalla Germania. A lui il regista dedica un saggio
dal titolo significativo
Imitation of Life, che si richiama a un'opera
di Sirk del '59 (in Italia:
Lo specchio della vita).
Lo stesso
La paura mangia l'anima
è un dichiarato "omaggio a...", rifacendosi per il contenuto a
All That Heaven Allows
(Secondo amore, 1956). Fassbinder pare imporsi in questo caso
soprattutto la filosofia di un motto sirkiano: "Non si può far dei film
sulle cose. Si possono soltanto fare film con delle cose, delle persone,
della luce, dei fiori, degli specchi, del sangue...". Come dire che
l'attenzione deve spostarsi da un approccio "esterno" alla messa in scena,
resa funzionale rispetto a un certo "dire" (questo l'effetto prodotto dai
raggelati kammerspiel del primo Fassbinder) a un lavoro dentro di essa,
teso a sviluppare tutte le possibilità dell'"esprimere", a creare certi
diapason che risuonano da un episodio all'altro, certe focalizzazioni del
personaggio, che debordano rispetto all'intenzionalità narrativa: la messa
in scena è strutturata dalle connessioni interne, è luogo di interazioni
più che di azioni.
Tale acquisizione diventerà definitiva per Fassbinder; verrà anzi
estremizzata al punto che i suoi ultimi film si possono ritenere di pura
messa in scena, costruiti a partire da stereotipi d'epoca con un'ironia
che si esercita sul gioco, reso consapevole, dell' orchestrazione. Ne
La paura mangia l'anima
siamo ancora nel territorio di mezzo del melodramma, fra accentuazioni di
struttura e modi di rappresentazione naturalistici. Il dato nuovo è
comunque l'eliminazione di ogni esteriorità drammatica o gesto esemplare -
al limite brechtiano - e un turgore diffuso in tutto il racconto, quasi
che la morte di Emmi, che già era stata esclusa come atto concluso nel
progetto del film, si riverberasse ora, echeggiata e struggente, in tanti
scorci del quotidiano e del sociale: nell'arredamento kitch della casa di
lei che vorrebbe simulare un decoro borghese, nella sua adesione ingenua e
atrocemente incosciente agli stereotipi di una sottocultura ("In questo
ristorante ci veniva Hitler. Sai chi è Hitler?", chiede ad Alì con una
punta di orgoglio), nel suo sforzo di darsi un piglio giovanile, subito
raggelato dallo sguardo di compatimento di qualcuno, nel breve gesto di
ribellione all'accerchiamento della gente, soffocato nel pianto della
vittima impotente.
L'intensità di Brigitte Mira, che Fassbinder reimpiegherà nel ruolo
principale di Mamma Küster e, per una breve apparizione, ne
Il diritto del più forte,
sta tutta nella sua impossibilità fisica di figurare come protagonista di
una storia romantica; ciò che le fa incarnare la poesia della goffaggine
nei timorosi abbandoni ai sentimento e negli slanci sempre a metà fra il
disarmato e il protettivo-materno. Il momento più forte de
La
paura mangia l'anima
è forse quello in cui Emmi, momentaneamente abbandonata da Alì, si lascia
andare a un'accorata dichiarazione d'amore al giovane marocchino nello
sporco di un'autorimessa davanti ai suoi compagni di lavoro tedeschi... |