Di
fronte a
O Fatalista
e ad un autore come Joao Botelho una premessa è opportuna, in quanto
adattare un’opera letteraria per il cinema risulta da sempre
un’operazione controversa. Le possibilità sono pressoché infinite ma è
luogo comune ritenere la trasposizione per lo schermo una perdita nei
confronti del testo letterario
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Affinché non si proceda con l’intento critico di svalutare
metodicamente l’elaborazione filmica, è essenziale, come condizione
primaria, ritenere il libro e il film come due opere artistiche
distinte, meritevoli della medesima considerazione, ed analizzabili
specificatamente attraverso criteri autonomi. Perciò non è ben chiaro
esattamente su cosa si basino i confronti, e i giudizi affrettati, da
parte del pubblico, tra opere letterarie e opere cinematografiche,
poiché, per forza di cose, l’opera cinematografica risulterà come una
riduzione del testo letterario, ma non per questo come conseguenza
l’esito sarà meno complesso o ricco di significati, dato che le
immagini, oltre a raccontare, offrono innumerevoli altre possibilità
d’osservazione.
Joao Botelho è da sempre abituato a trarre i soggetti per i suoi lungometraggi
da opere letterarie o teatrali.
O Fatalista
è infatti la trasposizione fedele del testo del filosofo illuminista
Denis Diderot
Jacques le fataliste, opera alla quale
già
Robert
Bresson aveva attinto per
il suo Perfidia
(Les dames du bois de Boulogne, 1944) e definito dallo stesso
“possente e magnifico, chiuso e sfuggente”. Il risultato ottenuto
da Botelho è senz’altro curioso e sorprendentemente efficace. Cercando
di manomettere il meno possibile il testo originale, l’autore portoghese
ci permette di seguire il viaggio dell’estroso autista Tiago e del
suo padrone attraverso i meandri di un indefinito e surreale territorio
lusitano, pretesto per la narrazione delle imprese amorose, deliranti
e grottesche, del servo Tiago. I due protagonisti instaurano una dialettica
che mette in mostra il discorso filosofico e procede beffardo e poderoso
a scardinare – e in questo non sembra prodursi davvero nessuno scarto
tra il presente e il 1771 di Diderot – i valori di una società brutale,
ancorata a rigide classi di appartenenza tese ad operare la propria
supremazia sulle altre. È un viaggio senza una meta definita, quello
intrapreso dall’autista e dal suo padrone. Un viaggio che è sviluppo
dell’eloquio dei due personaggi, vittima di quel fato o di quel destino
sotteso ad ogni nostro gesto, decisione, pensiero. Come dice più volte
Tiago, infatti, “tutto il bene o il male che accade quaggiù, è
scritto lassù”, e attraverso questa semplice formula viene mostrata
una concezione della vita arguta, brillante, vivace, lampante perfettamente
esemplificata, in concreto, dal servo.
O Fatalista
è un film di parole, dove non si smette mai di parlare e che fa in
modo che ci si parli, ma allo stesso tempo è un film che vive sui
propri importantissimi momenti di pausa, di respiro e di riflessione.
Ne esce un Portogallo allucinato, attraverso degli scorci di spazi,
delle angolazioni di interni, delle luci radiose e artificiose, che
non sono rappresentazione di nessuna realtà, ma caricatura sospesa di
un malessere soffuso e asperità delle nostre idee e dei nostri sogni.
“Il Fatalista è teologia senza alcun dio e filosofia senza alcuna
verità”, dice a proposito l’amico scrittore del regista, Cabral
Martins, e infatti non c’è nessun intento pedagogico nell’ironia
sottesa alle parole, siano esse del servo o del padrone. I due
personaggi si confondono, perdono le loro rigide caratteristiche
sociali per divenire semplicemente due esseri umani meritevoli della
medesima dignità. Alla fine rimane un’estrema e cinica consapevolezza
del materiale trattato da Botelho, e la voglia di raccontare,
discutendo, ponendo dei quesiti e lasciandoli appesi a qualche
convinzione o irrisolti o a ognuno di noi la possibilità di
avvalorarli, in un viaggio idealmente infinito.
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