Che
Shin'ya Tsukamoto sia uno dei registi giapponesi più conosciuti e
amati in occidente è dato noto, ma che ad ogni occasione - con
Fires
on the Plain ritorna nel concorso ufficiale veneziano - invita da una
parte a confrontarsi con l’umiltà e la dedizione al proprio lavoro del
regista di Tokyo, e dall’altra con l’identità puramente indipendente
del suo cinema, e di conseguenza con l'importanza dei circuiti
festivalieri nella scoperta e la promozione di territori artistici
altrimenti inesplorati dal mero mercato. Parliamo di quei titoli
necessari a completare il cartellone di una “Mostra d’Arte
Cinematografica” - raramente spoglio e deludente come quello della 71a
edizione del Festival di Venezia - e indispensabili per decifrare
coordinate e cambiamenti in atto nella settima arte.
Come già accaduto in una manciata di occasioni -
Hiruko the Goblin,
Gemini e il cortometraggio inserito nel film collettivo
Female -
Tsukamoto torna a confrontarsi con un soggetto non suo, le memorie
belliche messe in scena in
Nobi sono infatti quelle raccolte da Shōhei
Ōoka in uno dei più noti capolavori della letteratura nipponica del
dopoguerra, precedentemente adattato al grande schermo da Kon Ichikawa
nel classico Fuochi nella pianura. A differenza del film del 1959 in
cui la storia del soldato Tamura permetteva a Ichikawa di tratteggiare
l’oscura interiorità del personaggio, Tsukamoto preferisce seguirlo
nel suo disperato errare rievocando il contrasto tra l’uomo e la
natura che era anche tema del romanzo. La guerra secondo Tsukamoto è
un male che infetta, il cammino senza sollievo del protagonista nella
foresta filippina è una progressiva e avvilente discesa agli inferi
dove il corpo umano si fa ancora una volta mappa di una metamorfosi,
strumento privilegiato per decifrare i sentimenti più reconditi
dell’animo umano e la natura suo gigantesco e inaffrontabile
specchio/riflesso, uguale ed opposto. E, anche se i tempi di
Tetsuo sono evidentemente lontani, il confronto si fa diretto e spiazzante con
l’evoluzione artistica del suo autore e con l’esigenza di un
linguaggio cinematografico che è primordiale e rivoluzionario al tempo
stesso, un linguaggio che lo spettatore sta evidentemente
disimparando.
Nobi è un’esperienza sensoriale, ipercinatica, un film
sulla guerra dove il nemico non si vede, ma ogni suono ne materializza
l'incombente esistenza e dove il campo di battaglia è un territorio
senza punti di riferimento, barricate o ripari popolato di mummie di
carne fresca (il richiamo artaudiano è ancora una volta
evidentissimo). La guerra per Tsukamoto è orrore puro, non melodramma
eroico dato dall’accumulo di dettagli storici ma incubo palpabile che
si concretizza proprio nella sottrazione di punti di riferimento;
l’orrore è nella perdita di umanità, nell’abbrutimento, nell’inerzia
priva di speranza che annienta ogni forma di legame. Un girone
dantesco dove l'esposizione iper-realistica della mostruosità umana e
della carne - esibita, decomposta, mangiata - non hanno però nulla di
pornografico, né riconducibile al voyeurismo di genere, è semmai
brutalità pura la cui diretta messa in scena è ormai indispensabile a
scuotere la coscienza dello spettatore. Nelle interviste rilasciate in
occasione della presentazione del film Tsukamoto parla chiaramente di
un film politico e segnala l’urgenza di affrontare direttamente il
tema della guerra e della memoria della stessa: “Dalla guerra sono
passati settant'anni e questo significa che le persone che l'hanno
vissuta sono quasi tutte morte. Loro erano gli unici testimoni di una
realtà che è stata poi edulcorata e non arriva più senza filtri. Per
questo è necessario mostrare la realtà per come era, salvando così la
memoria.”
E se il passato rischia di venire troppo presto dimenticato, il cinema
si fa strumento ultimo e imprescindibile di memoria collettiva,
inevitabilmente critica e spietata.
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