Non
c’è forma nel buio, i contorni si fondono in un nero avvolgente e
l’ignoto aumenta le pulsazioni e i sensi si aprono nell’estremo
tentativo di sopperire ad una mancanza. Il buio della sala ci
introduce nel baratro del turbamento interiore di un’anima la cui
inquietudine è da sempre un tratto distintivo, espressivo, artistico
ma alla quale è stato sradicato un pezzo di quella fievole certezza
che l’illusione della vita porta fatalmente a generare. Per un
creatore di forme, sofisticato e complesso, come Nick Cave, i suoni,
gli accordi, l’evoluzione compositiva delle parole, l’immagine
oppressa e (con)dannata della sua mimica, il preziosismo ornato del
suo stile conflittuale, orgoglioso ma afflitto, melodico, rock,
alternativo, a tratti aulico, costituiscono la corteccia di un’opera
al tempo stesso indagine e riflessione esistenziale su un presente
sensibile, indispensabile conformazione di un corpo non slegato dalla
propria esternazione di autore.
Non estraneo a comparire dentro il grande schermo, il compositore
australiano è per natura un abile contaminatore mediatico: il film del
2014 dei visual artist Ian Forsyth e Jane Pollard
20,000 Days on Earth rimane una
sperimentazione ammaliante e insolita, l’apparizione al piano in
Les beaux jours d’Aranjuez di Wim
Wenders (in concorso a Venezia 73) è quasi certamente il momento più
toccante del film, la colonna sonora e l’interpretazione del cowboy
cantante nel saloon in L’assassinio di Jesse
James per mano del codardo Robert Ford dell’amico Andrew
Dominik, restano impressi nei ricordi. Così, quello che nasce come un
progetto attorno alla scrittura del nuovo album in uscita Skeleton
Tree, come una sorta di documento di pro(du)(mo)zione incentrato
sul fluire delle note e della voce di Nick Cave e della sua band - i
Bad Seeds di Warren Ellis -, diventa, complice la fine intuizione
visiva del fedele regista Dominik, e il sopraggiungere del tragico
evento nella vita familiare e privata del cantautore, un
lungometraggio ibrido e di ardua definizione, tale ne è la portata
innovatrice ed emozionale. Un documentario la cui definizione risulta
sempre essere mancante, approssimativa, sfuggente e timorosa di
offendere l’affetto intellegibile e il rispetto che si dipanano dalla
costruzione sapiente e mai accademica delle riprese e del montaggio.
One
more time with feeling
si è evoluto in qualcosa di molto più significativo quando ha iniziato
a scavare nel tragico contesto della scrittura e registrazione
dell’album. Performance live dei Bad Seeds che cantano le nuove
canzoni si intrecciano a interviste e riperse di Dominik, accompagnati
dalla narrazione intermittente e dalle riflessioni estemporanee di
Nick Cave. Il risultato è una testimonianza cruda, rigorosa e fragile,
un vero e proprio tributo a un artista che cerca di trovare la sua
strada attraverso l’oscurità.” Un’oscurità che non viene mai palesata
attraverso descrizioni o semplici considerazioni sull’accaduto, e
nemmeno da reazioni impulsive di patetica e compiaciuta ricerca
empatica. Le tenebre Cave le conosce bene, e non si tratta di trovare
la strada per uscirne, quando di ricaricare di energia necessaria il
lumicino che permette di vagare al loro interno. E la musica che
delinea il profilo di Skeleton Tree è quel fascio di luce che come una
torcia illumina un percorso di scoperta e accettazione del sentimento
scoraggiante che lo smarrimento, a cui ci mette di fronte la vita, non
è altro che una possibilità per aggiungere un incastro alla
consapevolezza di se stessi e del proprio talento.
“When you're feeling like a lover, nothing really matters anymore”
esordisce il testo del brano I need you. Già nella
condensazione di un titolo c’è tutto un mondo. Le parole del cantante
scorrono con l’andamento irregolare del flusso di coscienza, così come
un libero fluire del pensiero, sotto forma di interrogativo, di
invito, o forse invocazione taciuta, e si rivolgono ad un
interlocutore misconosciuto ma dalle infinite facce, e scavano,
scavano così a fondo fino a ripercuotersi violentemente nel cuore di
chi ha scelto di sedersi lì e ascoltarle. Il merito, considerevole
quanto prezioso, sta nell’occhio corporeo, tangibile eppure soavemente
penetrante di Andrew Dominik, il quale, con una buone dose di coraggio
e lungimiranza ricorre a scelte estetiche estreme e mai prima
collaudate: “Sentivo che il rigore del bianco e nero e la
tormentata drammaticità delle immagini in 3D si combinavano
perfettamente con la musica incorporea dell’album e con lo strano
senso di paralisi da cui Nick sembrava avvolto”.
Se il bianco e nero conferisce un’eleganza fuori dal tempo ai
contrasti netti delle nebulose ombre che circondano Cave e la sua
lirica, per la prima volta probabilmente dalla sua introduzione, la
tecnica tridimensionale acquisisce una significazione precipua e non
spettacolare - e agli antipodi rispetto al tentativo gratuito e
inconcludente di Wim Wenders nel sopracitato film - proprio nel
collocarsi visibilmente (e fastidiosamente a volte, data l’ingombranza
dell’apparato) negli angusti spazi dello studio di registrazione,
dell’abitacolo dell’automobile, delle stanze di casa, là dove in
definitiva, la dimensione intima, claustrofobica, opprimente di una
qualsivoglia quotidianità imbriglia e ingabbia l’incedere pressante
della memoria. Una dimensione in più allora riesce a dare un respiro
più ampio, a vedere meglio e più nitidamente dentro la screpolatura di
uno sguardo, a non dimenticare il sospiro genuino del dolore immobile
e avvolgente che un movimento della mano può lasciar trasparire.
E alla fine della prima visione del film, lo stesso Nick Cave,
dapprima disgustato dalla nuova tecnologia, ha chiesto al regista di
assicurarsi che fosse sempre visto in 3D.
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