Nick Cave - One more time with feeling
Andrew Dominik - USA 2016 - 1h 52’
versione originale sottotitolata

VENEZIA 73


  Non c’è forma nel buio, i contorni si fondono in un nero avvolgente e l’ignoto aumenta le pulsazioni e i sensi si aprono nell’estremo tentativo di sopperire ad una mancanza. Il buio della sala ci introduce nel baratro del turbamento interiore di un’anima la cui inquietudine è da sempre un tratto distintivo, espressivo, artistico ma alla quale è stato sradicato un pezzo di quella fievole certezza che l’illusione della vita porta fatalmente a generare. Per un creatore di forme, sofisticato e complesso, come Nick Cave, i suoni, gli accordi, l’evoluzione compositiva delle parole, l’immagine oppressa e (con)dannata della sua mimica, il preziosismo ornato del suo stile conflittuale, orgoglioso ma afflitto, melodico, rock, alternativo, a tratti aulico, costituiscono la corteccia di un’opera al tempo stesso indagine e riflessione esistenziale su un presente sensibile, indispensabile conformazione di un corpo non slegato dalla propria esternazione di autore.
Non estraneo a comparire dentro il grande schermo, il compositore australiano è per natura un abile contaminatore mediatico: il film del 2014 dei visual artist Ian Forsyth e Jane Pollard 20,000 Days on Earth rimane una sperimentazione ammaliante e insolita, l’apparizione al piano in Les beaux jours d’Aranjuez di Wim Wenders (in concorso a Venezia 73) è quasi certamente il momento più toccante del film, la colonna sonora e l’interpretazione del cowboy cantante nel saloon in L’assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford dell’amico Andrew Dominik, restano impressi nei ricordi. Così, quello che nasce come un progetto attorno alla scrittura del nuovo album in uscita Skeleton Tree, come una sorta di documento di pro(du)(mo)zione incentrato sul fluire delle note e della voce di Nick Cave e della sua band - i Bad Seeds di Warren Ellis -, diventa, complice la fine intuizione visiva del fedele regista Dominik, e il sopraggiungere del tragico evento nella vita familiare e privata del cantautore, un lungometraggio ibrido e di ardua definizione, tale ne è la portata innovatrice ed emozionale. Un documentario la cui definizione risulta sempre essere mancante, approssimativa, sfuggente e timorosa di offendere l’affetto intellegibile e il rispetto che si dipanano dalla costruzione sapiente e mai accademica delle riprese e del montaggio.
One more time with feeling si è evoluto in qualcosa di molto più significativo quando ha iniziato a scavare nel tragico contesto della scrittura e registrazione dell’album. Performance live dei Bad Seeds che cantano le nuove canzoni si intrecciano a interviste e riperse di Dominik, accompagnati dalla narrazione intermittente e dalle riflessioni estemporanee di Nick Cave. Il risultato è una testimonianza cruda, rigorosa e fragile, un vero e proprio tributo a un artista che cerca di trovare la sua strada attraverso l’oscurità.” Un’oscurità che non viene mai palesata attraverso descrizioni o semplici considerazioni sull’accaduto, e nemmeno da reazioni impulsive di patetica e compiaciuta ricerca empatica. Le tenebre Cave le conosce bene, e non si tratta di trovare la strada per uscirne, quando di ricaricare di energia necessaria il lumicino che permette di vagare al loro interno. E la musica che delinea il profilo di Skeleton Tree è quel fascio di luce che come una torcia illumina un percorso di scoperta e accettazione del sentimento scoraggiante che lo smarrimento, a cui ci mette di fronte la vita, non è altro che una possibilità per aggiungere un incastro alla consapevolezza di se stessi e del proprio talento.
“When you're feeling like a lover, nothing really matters anymore” esordisce il testo del brano I need you. Già nella condensazione di un titolo c’è tutto un mondo. Le parole del cantante scorrono con l’andamento irregolare del flusso di coscienza, così come un libero fluire del pensiero, sotto forma di interrogativo, di invito, o forse invocazione taciuta, e si rivolgono ad un interlocutore misconosciuto ma dalle infinite facce, e scavano, scavano così a fondo fino a ripercuotersi violentemente nel cuore di chi ha scelto di sedersi lì e ascoltarle. Il merito, considerevole quanto prezioso, sta nell’occhio corporeo, tangibile eppure soavemente penetrante di Andrew Dominik, il quale, con una buone dose di coraggio e lungimiranza ricorre a scelte estetiche estreme e mai prima collaudate: “Sentivo che il rigore del bianco e nero e la tormentata drammaticità delle immagini in 3D si combinavano perfettamente con la musica incorporea dell’album e con lo strano senso di paralisi da cui Nick sembrava avvolto”.
Se il bianco e nero conferisce un’eleganza fuori dal tempo ai contrasti netti delle nebulose ombre che circondano Cave e la sua lirica, per la prima volta probabilmente dalla sua introduzione, la tecnica tridimensionale acquisisce una significazione precipua e non spettacolare - e agli antipodi rispetto al tentativo gratuito e inconcludente di Wim Wenders nel sopracitato film - proprio nel collocarsi visibilmente (e fastidiosamente a volte, data l’ingombranza dell’apparato) negli angusti spazi dello studio di registrazione, dell’abitacolo dell’automobile, delle stanze di casa, là dove in definitiva, la dimensione intima, claustrofobica, opprimente di una qualsivoglia quotidianità imbriglia e ingabbia l’incedere pressante della memoria. Una dimensione in più allora riesce a dare un respiro più ampio, a vedere meglio e più nitidamente dentro la screpolatura di uno sguardo, a non dimenticare il sospiro genuino del dolore immobile e avvolgente che un movimento della mano può lasciar trasparire.
E alla fine della prima visione del film, lo stesso Nick Cave, dapprima disgustato dalla nuova tecnologia, ha chiesto al regista di assicurarsi che fosse sempre visto in 3D.

Alessandro Tognolo - settembre 2016 - pubblicato su MCmagazine 41