da L'Unità (Dario Zonta) |
Vivere e rappresentare la contraddizione è una delle funzioni nobili del cinema. Il muro di Simone Bitton, presentato alla Quinzaine di Cannes e vincitore all'ultimo festival di Pesaro, verifica questa vocazione. È un documentario su quel muro che il governo Sharon sta edificando, fuori e dentro la Palestina, con lo scopo di difendere gli israeliani dagli attacchi terroristici e con il risultato di imprigionare gli uni e recintare gli altri. Il muro, detto anche «la cosa» per la sua inafferrabile definizione (è allo stesso tempo barriera, «frontiera di fatto», recinto spinato, gabbia...), è l'immagine fissa (immobile e «inamovibile») della contraddizione e dell'estremismo del conflitto israeliano-palestinese. Le conseguenze politiche, militari, economiche, ambientali, sociali e psicologiche della sua erezione sono enormi. Simone Bitton le indaga compiendo un viaggio al di qua e al di là del muro, incontrando le genti (tutte vittime) che vivono a ridosso. Con loro la regista parla ugualmente in arabo e in israeliano, perché le sue origini sono miste. Simone Bitton, infatti, è un'ebrea sefardita, nata in Marocco in una famiglia ebrea tradizionale di lingua araba. Ha imparato l'ebraico a Gerusalemme e ha studiato il francese a Parigi dove ha frequentato l'IDHEC, la scuola di cinema. Forte di questa ricchezza linguistica e culturale e mossa dall'indignazione per la costruzione del muro, la Bitton ha viaggiato lungo la ferita che «divide» occidente e oriente, ebrei e arabi, israeliani e palestinesi. Con una troupe di tre persone (regista, macchinista e fonico) e un'attrezzatura video leggera, la Bitton ha realizzato un documentario di notevole rigore estetico e di impressionante equilibrio politico. Il muro, protagonista assoluto, è l'abiezione che colpisce tutti. Viene ripreso in tutti i modi. L'immagine più efficace è data dalla camera-car (una lunga carrellata girata con una cinepresa posta su un veicolo) che senza soluzione di continuità riprende il muro nella sua estensione, lunghezza, impenetrabilità, invadenza. A discutere l'impatto della «cosa» sono voci dal «basso»: operai curdi (gli unici a lavorare per edificare il muro sono immigrati), coloni impauriti, contadini palestinesi espropriati, bambini israeliani... Spesso i protagonisti non si vedono, sono voci-off dietro la videocamera che inquadra il muro in tutte le sue posizioni. La Bitton lo attraversa «magicamente», con la forza del cinema. Zigzaga di qua e di là. Non usa mai didascalie o cartine. Non dice mai «chi è chi». L'arabo e l'ebraico, per chi non li riconosce, si assomigliano per sonorità e la Bitton mantiene e gioca con questa «incomprensione», proprio a significare la continuità e la vicinanza di popoli oggi in contrapposizione. L'unica vera intervista, con domande consegnate in anticipo e set preparato dall'ufficio stampa, con tanto di bandiere sullo sfondo, è al generale Amos Yaron, direttore del Ministero della Difesa israeliano, incaricato dell'erezione del muro. È l'unica voce ufficiale. Recita cifre, materiali, tecniche, misure del muro con tono freddo e autoritario... il muro è alto dai cinque agli otto metri, ha una larghezza (tra base, filo spinato, strada militare e altro) di cinquanta metri, si estende per 500 chilometri, costa un miliardo di dollari. È fortificato, elettrificato, allarmato. Nel suo percorso ha annesso intere aree palestinesi, imposto espropri, tagliato strade e città. Isola i palestinesi e circonda gli israeliani. È un incubo, meglio una «distopia», che fa sia da prigione che da condanna. Il muro, insieme a Route 181 di Khleifi e Sivan, è la miglior indagine cinematografica sulla ferita israeliano-palestinese. |
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TORRESINO
maggio-giugno 2005
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