L'enfer
Danis Tanovic  - Francia/Belgio/Italia/Giappone 2005 - 1h 35'

da La Stampa (Gian Luigi Rondi)

    Dopo l'inferno nei Balcani, in occasione delle guerre recenti (No Man's Land), il bosniaco Danis Tanovic ci racconta oggi l'inferno nelle vite private. Da Parigi, dove ha trovato riparo. Per farlo, anziché a un proprio testo, come quando aveva esordito subito accolto da un successo mondiale, si è rivolto a un altro che Krzysztof Kieslowski aveva scritto con il suo sceneggiatore di sempre, Krzysztof Piesewicz, senza poterlo realizzare perché morto all'improvviso. I temi di fondo, perciò, sono i suoi, soprattutto quelli che, da Destino fatale al Decalogo, studiavano il peso drammatico del caso e delle coincidenze nelle vite degli uomini, guidate, forse, da disegni superiori e, comunque, misteriosi. Tre sorelle e una madre. Una, Céline, senza amici né amori, si occupa di questa madre, ricoverata, paralitica e muta, in una casa di riposo. Un'altra, Sophie, è afflitta da un marito che la tradisce e di cui si affanna a scoprire le infedeltà. La terza, Anne, si tormenta all'idea che il suo amante, sposato con prole, voglia troncare la loro relazione. Quei loro drammi, quei loro piccoli, grandi inferni, derivano da un trauma sofferto da piccole quando la madre aveva denunciato il marito ritenendolo un pedofilo rovinando nel suo odio la vita a lui, alle figlie e anche a se stessa, perché difatti adesso è inchiodata su una sedia a rotelle. Un odio che non si estinguerà neanche quando Céline potrà dimostrarle l'innocenza del padre, vittima di un equivoco (e perciò di una coincidenza, di un caso...). Non si può sapere come Kieslowski avrebbe svolto questi suoi temi con l'ispirato, scabro dominio che aveva sul cinema. Tanovic ha seguito da vicino quel testo, a lui comunque estraneo nelle sue implicazioni più profonde, e si è ingegnato almeno di essergli fedele su un piano formale: le vite delle sorelle sempre una lontana dall'altra e solo intente ad affrontare, ciascuna per proprio conto, i problemi che la travagliano, la presenza incombente di quella madre paralitica e senza favella, idealmente pronta — come Medea non a caso citata — a distruggere la prole per distruggere il marito. In cifre sempre angosciate (fino alla rivelazione finale), con immagini spesso buie ma con segni fermi e lineari. E, soprattutto, con una recitazione che arriva a scavare con asciutto rigore nell'intimo di quelle dolenti figure femminili. Specialmente per merito di Emmanuelle Béart, nel carattere quasi ermetico di Sophie e di Carole Bouquet, pronta a imbruttirsi e a invecchiarsi per ricreare il personaggio gelido della madre, un monumento senza voce all'odio. No Man's Land era più teso e lacerante, questo è altrettanto forte.

da Panorama (Piera Detassis)

    Inutile chiedersi come sarebbe stato L'enfer diretto da Krzysztof Kieslowski. La sceneggiatura è infatti del grande regista polacco scomparso nel 1996 e fa parte della trilogia Il Paradiso, L'inferno e Il Purgatorio firmata in coppia con il fedelissimo Krzysztof Piesiewicz. Dopo la morte del regista, Il Paradiso è diventato un film diretto, con poca fortuna stilistica e di botteghino, da Tom Twyker, mentre lo script dell'inferno è finito nelle mani di Danis Tanovic, già premio Oscar per No man's land.
L'intreccio è bellissimo e prevede un colpo di scena finale da non rivelare: a Parigi tre donne, legate tra loro da un filo a lungo invisibile, si dannano per amore e disamore. Emmanuelle Béart persiste nella via crucis della passione umiliata per un marito fotografo e fedifrago; Marie Gillain (la più intensa e misurata) ama senza requie, tormentandolo, un anziano professore sposato, Karin Viard trascorre la sua misera vita in treno, senza amore, impegnata a curare la madre inferma (Carole Bouquet, muta e devastata dalle rughe, dolorosamente raggelata in un make-up poco credibile). Il film è di quelli a cubo di Rubik, prima o poi i fili delle tre storie si chiuderanno, anche se, grazie agli insistiti flashback su un padre pedofilo, si comincia troppo presto a intuire la soluzione.
Il racconto a incastro ha una sua forza d'attrazione, ma la macchinosità barocca si fa seguire a fatica, con rapidi cedimenti alla noia, a parte il fatto che, fra tante attrici ispirate e un po' troppo dolenti, vorremmo goderci di più il leggiadro Jean Rochefort, relegato invece a un piccolo ruolo. Per una materia tanto ribollente, che intreccia delitto e castigo, follia d'amore e suicidio in interni borghesi, sono richiesti mano ferma, sguardo ineffabile, lo stile senza birignao in cui eccelleva Kieslowski, che dal tragico sapeva trarre leggerezza. Tanovic pesta un po' troppo scompostamente sulle note alte di una sinfonia compiaciuta. E, pur regalandoci una storia affascinante, ci priva del piacere del mistero e dell'inesplicabile.

cinélite TORRESINO all'aperto: giugno-agosto 2006