Ladri di saponette
di Maurizio Nichetti - Italia 1989 - 1h 29'

  

Contaminazione è la parola chiave per leggere Ladri di saponette, quinto film di Maurizio Nichetti, accolto con mediocre entusiasmo da pubblico e critica italiani, ma acclamato ed addirittura premiato al Festival di Mosca 1989.
Il termine "leggere" risulta più che mai opportuno proprio perché Nichetti offre questo suo film come lavoro da analizzare, amalgamando multiformi messaggi massmediali da ricomporre e decodificare. Non per niente l'incipit è una frenetica soggettiva dell'arrivo, in uno studio tv, dell'autore-Nichetti che deve presenziare alla messa in onda della sua nuova opera (il film nel film!). Se Nanni Moretti si rendeva disponibile al dibattito cineforistico con la "casalinga di Treviso" (Sogni d'oro), qui c'è il critico di turno (Claudio G. Fava in persona, che fa il verso a se stesso) che sintetizza, nella presentazione, il vero senso del cinema: "solo attraverso le immagini un creatore di cinema pu spiegare il passato ed interpretare il presente". Sì, perché Ladri di saponette, rigorosamente in bianco e nero, è ambientato nella povera Italia del dopoguerra: nella trama, rivisitando con rispetto e irona il neoralismo di De Sica (e il melodramma di Matarazzo), il protagonista Antonio Piermattei (intrerpretato sempre da Nichetti, in un look alternativo, senza chioma e occhiali) cerca disperatamente lavoro, mentre la moglie Maria "prova", negli scantinati, a crearsi un futuro da soubrette. Ci sono anche due figli: Bruno, sei anni, fa il garzone ad una pompa di benzina (e il chierichetto nel tempo libero), l'altro, piccolino, sopravvive sereno (Truffaut docet) alle molteplici calamità domestiche (coltelli, prese di corrente, ecc). Quando alfine Antonio viene assunto in una fabbrica di lampadari, cade subito in tentazione e ne ruba uno, per farne dono alla moglie. Mentre rientra a casa in bicicletta, verrebbe peòr investito da un camion, rimanendo paralizzato: a Maria non resterebbe che darsi alla prostituzione ed il dramma non potrebbe che chiudersi con i figli affidati ad un orfanatrofio...
Abbiamo dovuto ricorrere al condizionale per completare il racconto perché esso è solo la memoria della trama che l'autore aveva creato nel suo film. Nella realtà, cioè nella trasmissione televisiva (?!), Ladri di saponette subisce una profonda mutazione: non è solo l'intromissione degli aberranti spot a deformare la sua unità stilistica (alla prima interruzione, Antonio guarda annichilito verso la macchina da presa), ma soprattutto la contaminazione che subiscono i protagonisti, gli eventi stessi, al contatto con il messaggio pubblicitario. E' Bruno a darci il primo segnale, lasciandosi sedurre dalla reclame di una merendina videotrasmessa in parallelo, ma la vera mutazione si compie quando, per un improvviso black-out elettrico, un'avvenente modella trasmigra dalla piscina del suo spot in un fiume che scorre proprio accanto alla strada percorsa da Antonio...
L'incoerenza tra soggetto-creato e soggetto-contaminato non può che crescere, assurdamente, fotogramma dopo fotogramma: Maria si suicida nel fiume per "riemergere" nella lavatrice di una pubblicità di detersivi (e finire come comparsa-cantante in uno spot affine) mentre Nichetti-Antonio, accusato del suo omicidio, viene ingiustamente incarcerato.
Il nostro disorientamento non è minore di quello di Nichetti-regista che inutilmente protesta, negli studi televisivi, per ricomporre la sua opera: finirà lui stesso, fatalmente, all'interno del suo film. Dovrà ritornare nel reale per recuperare i suoi personaggi (anche Bruno, transfuga per evitare l'orfanatrofio) e sarà costretto a reinventare uno strampalato finale, con tanto di processione di carrelli da supermarket, a riempire casa Piermattei di prodotti consumistici .
Certamente originale quale film intellettual-comico sull'ossessione pubblicitaria, Ladri di saponette ridà considerazione autoriale a Maurizio Nichetti che, dopo l'ingenua poesia di Ratataplan (1979), era andato in caduta libera negli anni a seguire. La denuncia dell'overdose da spot, la precarietà della commistione tra realtà e immaginario, l'esasperazione del binomio felicità-benessere, trovano nel suo film una vetrina declamatoria che al contempo diviene anche gabbia stilistica: se è vero che, in un ulteriore livello narrativo, assistiamo all'abulico rapporto di una famiglia di teleutenti con il messagio videotrasmesso (l'esclusione del dialogo interpersonale, la nevrosi da telecomando, l'appiattimento percettivo del palinsesto), è anche vero che l'estrema invocazione di aiuto da parte di Nichetti (rimasto infine prigioniero all'interno del racconto televisivo) rischia di proporsi quale mea-culpa d'autore, piuttosto che sigillo di denuncia di alterazione percettiva.
Vale la pena, in chiusura, di riportare la lettura sociologica che proprio Fava ha proposto per interpretare il successo di Mosca: "Perché i russi hanno visto le parti in bianco e nero come la loro realtà, e quelle a colori come l'Occidente. Loro non hanno dubbi, tifano per il consumismo e per la pubblicità, e considerano il film a lieto fine".

e.l. Quaderno "Appunti": A TUTTO SPOT - settembre 1990