Fuori
concorso nella sezione ORIZZONTI è passato quasi inosservato un
piccolo capolavoro:
k.364
di Douglas Gordon. L’autore, più conosciuto nell’ambito dell’arte
contemporanea che in quello più propriamente cinematografico, è, tra
gli artisti che fanno uso dell’immagine in movimento, uno dei più
interessanti non solo per la qualità delle opere realizzate, ma anche
per la riflessione teorica da cui scaturiscono.
Modificando la nostra percezione sensoriale di eventi già noti, come
possono essere un film, una partita di calcio, un concerto, Douglas
Gordon ci fa vedere il “nuovo”, il mai visto in qualcosa che in realtà
ci è familiare, noto, già visto e fruito; con questo rovesciamento del
concetto di unheimliche freudiano, l’artista crea una perturbazione,
che non è più soltanto di carattere psicologico, ma di carattere
culturale e storico.
Proiettando il film di
Hitchkock forse più noto
a tutti,
Psycho
sulle pareti di un museo o di una galleria, rallentato
elettronicamente in modo da durare 24 ore, Gordon produce nello
spettatore un totale spaesamento spazio-temporale, che non può non
implicare una riflessione intrinseca intorno al significato
dell’”"arte" a partire da una sua espressione compiuta come
Psycho. Non
a caso quest’opera
24 hours Psycho
(1999) ha ispirato, oltre a una
gran mole di scritti teorici, l’ultimo bellissimo romanzo di Don De
Lillo Punto Omega.
In Zidane: A XXI° Century Portrait (2006), nato dalla collaborazione
con l’artista francese Philippe Parreno, l’attenzione di Gordon sembra
più spostata sul piano della percezione spaziale. Le riprese di una
partita di calcio tra Real Madrid e Villareal allo stadio Santiago
Bernabeu sono tutte concentrate su un unico giocatore, Zidane.
Modificando così la percezione che noi abbiamo di un evento, che ci è
familiare, come una partita di calcio, Zidane finisce per essere il
ritratto adeguato del XXI° secolo perché, “pur facendoci vedere uno
spettacolo da un punto di vista assolutamente inedito, ci restituisce
l’inedito sotto forma di edito, sia nel senso dell’”editing” a cui
tale mai-visto viene sottoposto per essere “visto”, sia nel senso che
tale novità non-ancora-vista (lo spettacolo di un solo calciatore per
90 minuti) ha senso entro l’orizzonte semantico del già-noto (la
partita di calcio)”. (M. Senaldi, Doppio sguardo, p.258)
Nel filone dei “Ritratti” Gordon colloca anche quest’ultimo
k.
364 definendolo “il ritratto di una composizione musicale”.
Il film segue il viaggio in treno da Berlino a Varsavia di due
musicisti di origine ebreo-polacca, Avri Levitan e Roi Shiloah, che
tornano alle terre da cui le loro famiglie dovettero fuggire nel 1939,
per esibirsi alla Filarmonica di Varsavia con la Sinfonia Concertante
k.364 in E Flat Major di Mozart.
Inizia con una sorta di collage di suoni e immagini astratte della
piscina municipale di Poznan, che originariamente era stata costruita,
nel 1907, come sinagoga. Passato e presente fluttuano indistinti come
i corpi che si muovono nella piscina.
Nelle sequenze successive ci vengono presentati i due protagonisti,
ripresi sempre in dettaglio in piani ravvicinati, attraverso il
riflesso delle finestre del treno, che viaggia in un paesaggio
desolato, che si trasforma a sua volta nella tela su cui si svolge un
altro viaggio – un viaggio di idee, ricordi, musica. Le loro storie
sono raccontate per frammenti, che appaiono e scompaiono come gli
alberi spogli del paesaggio che il treno attraversa e come i lampi di
luce riflessa dai finestrini del treno. E le riprese ravvicinate e i frammenti di storie creano un’empatia con i
due musicisti.
“La musica esiste solo quando raggiunge le tue orecchie. Quando è
nell’aria. Non ha né passato né futuro.”
Questi frammenti di conversazione vengono interpretati e visualizzati
da Gordon nella seconda parte del film, quella in cui viene ripreso il
concerto a Varsavia.
La macchina da presa sta sempre addosso ai due musicisti e si muove,
accompagnando il ritmo della musica sui loro volti, ormai a noi
familiari, riprendendoli in contemporanea in split screen con
primissimi piani sulle mani, sugli occhi, sul sorriso. Orchestra e
pubblico sono lasciati nel fuori campo, è la musica che crea lo
spazio, dentro cui anche noi spettatori siamo catturati. Tutto ciò
produce una percezione sensoriale del tutto “diversa”, “nuova”
rispetto a quella che potremmo avere essendo presenti personalmente al
concerto o ascoltandone la registrazione dalla nostra poltrona
preferita.
Lo schermo cinematografico, la “cornice” per eccellenza della cultura
novecentesca, non è più inchiodato ad un modello statico della
percezione, ma ospita un sistema visivo che si guarda attorno, va
verso gli oggetti interessanti e li osserva da tutti i lati, passando
da una prospettiva a un’altra, rendendo l’azione, di chi guarda e
quella di chi elabora, parte di un unico continuum, di un grande gioco,
dove la percezione sconfina nell’azione e viceversa.
Dice Gordon Douglas: “L’idea di questo film mi venne un anno fa
durante un viaggio a Poznan. Il viaggio in se stesso era come un
contesto per l’eventuale performance, il paesaggio è popolato da
fantasmi, incertezze ed ha in risposta le fragili speranze offerte
dalla musica. Io fui colpito, non solo dalla bellezza del concerto, ma
dalla potenza della situazione. Si potrebbe quasi dire che la
situazione mi spinse a mettere insieme un altro ritratto…”
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