In My Country
(Country of My Skull) |
da La Repubblica (Roberto Nepoti) |
Mentre le cronache quotidiane da Bagdad ci tolgono ogni residua illusione, mettendoci dinanzi all'atroce attualità della tortura e dell'umiliazione programmata di esseri umani, un film come In My Country arriva a proposito. E' ambientato nel Sudafrica del 1995, anno in cui furono istituite (per volere di Nelson Mandela e dall'arcivescovo Desmond Tutu) le "Commissioni per la verità e la riconciliazione". Il compito di queste commissioni era di denunciare i crimini commessi dal regime sudafricano durante l'apartheid; ma soprattutto di mettere i colpevoli a confronto con le loro vittime. L'intento: produrre un grande ritocatartico che permettesse di creare, attraverso l'"ubuntu" (il riconoscimento della dignità del diverso da sé) le condizioni per il transito dalla violazione sistematica dei diritti umani a una forma compiuta di democrazia. Nel film (il titolo originale è "Country of My Skull", lo stesso del libro di Antjie Krog che contiene i racconti delle vittime), diretto con stile molto classico dal veterano John Boorman, il reporter del Washington Post Langston Whitfield è inviato a Città del Capo col compito di seguire le sedute delle Commissioni. Testimonianze e confessioni sorpassano largamente, per bestialità e brutalità calcolata, l'immaginazione del giornalista; così come lo sconcertano i comportamenti reciproci dei carnefici e delle vittime degli abusi. Tormentato da mille dubbi, Whitfield si trova a dover rimettere tutto in questione, inclusa la propria identità etnica di africanamerican. Il che non gli impedisce di fare un grosso scoop, rintracciando il colonnello De Jager (Brendan Gleeson), il più tristemente noto dei torturatori del regime sudafricano; uomo dalla mente mostruosa, per nulla pentito delle proprie efferatezze. Né d'imbarcarsi in una lovestory con la bella "afrikaans" Anna Malan, poetessa democratica che segue le udienze per conto di un'emittente radiofonica, ma è sempre più devastata dai racconti delle crudeltà commesse dai suoi compatrioti (lo dimostra l'interpretazione di Juliette Binoche, costantemente sul punto di piangere). Nella seconda parte, la storia d'amore impossibile - entrambi tengono famiglia - prende il sopravvento sul tema storico, che si riduce quasi a un pretesto per incartare la passione e ambasce sentimentali dei due protagonisti. Ma se i palpiti del cuore di Juliette e Samuel possono allargare il numero degli spettatori di un film il cui contesto storico non dovrebbe, mai, essere dimenticato da nessuno, avranno anche quelli la loro parte di merito. |
da L'Unità (Dario Zonta) |
In My Country è il primo film che racconta le vicende legate alla "Commissione per la verità e la riconciliazione" del Sudafrica. A servire "questo" tema sono stati chiamati: un regista su commissione, John Boorman (di talento solo quando ispirato, come con Un tranquillo week end di paura); una sofisticata attrice francese d’aspirazione hollywoodiana (Juliette Binoche); una star afroamericana, professionista per tutte le stagioni (Samuel L. Jackson). Insomma, un apparato main stream per una storia tra le più delicate e importanti del Novecento: quella della "Commissione", voluta da Nelson Mandela e dall’arcivescovo Desmond Tutu. Aveva il compito di accertare, attraverso le testimonianze delle vittime, la violazione dei diritti umani ripetutesi durante il regime dell’apartheid e assicurare l’amnistia a tutti i colpevoli che si fossero presentati alle udienze pubbliche e avessero ammesso i delitti, purché giustificati da motivi politici. Lo scopo della Commissione (che ha operato dal ’95 al ’98) era di transitare il nuovo Sud Africa alla democrazia "riparando" l’immensa e profonda ferita inferta da trent’anni di apartheid. Ora, lo scenario del Sud Africa post-apartheid non è nuovo alla storia dei regimi politici e militari fondati sulla violazione dei diritti umani. Originale è il metodo seguito per ottenere una reale e duratura pacificazione. Non il processo internazionale (fondato sul modello di Norimberga), destinato all’accertamento delle responsabilità penali personali; neanche l’amnistia generale del crimine. Il modello di Mandela sposta l’attenzione sulle vittime, dandogli voce e restituendogli dignità (e non solo il «compenso» morale della condanna penale dei carnefici) e trasforma il «perdono» in un’amnistia individuale. Come il film di Boorman mostra, le udienze avevano la forza catartica di riti collettivi, resi pubblici dalle trasmissioni radiofoniche. La preghiera e il canto accompagnavano la testimonianza della vittima, la quale era sempre affiancata e confortata da tre persone, spesso familiari, coadiuvati da uno psicologo. Il racconto delle atrocità era dilaniante ma espiatorio, catartico e riconciliatorio. Si capisce bene quanto fosse difficile il compito assegnato al film. In My Country, però, propone la solita soluzione hollywoodiana, che qui diventa: lui giornalista nero americano (Samuel L. Jackson), affermato e di sicure verità razziali, lei poetessa afrikaaner (Juliette Binoche, ispirata alla figura di Antje Krog, autrice del libro Country of My Skull, da cui il film prende le mosse) dilaniata dal senso di colpa collettivo. Entrambi seguono le udienze, si conoscono, si scontrano e si innamorano in siparietti giocosi e gioiosi. È come se il film si ritraesse dall’atrocità della materia, mettendo contrappunti rassicuranti e confortanti. Atteggiamento comprensibile ma, per noi, sconfortante. Rimane il valore pedagogico e di testimonianza di un film che non è rigoroso, e neanche bello, ma utile per imparare, capire e crescere. |
LUX - maggio/giugno 2004