Hurricane
Norman Jewison – USA 1999 2h 20’

da La Repubblica (Roberto Nepoti)

Sarà vero che, nella notte degli Oscar, Denzel Washington è stato vittima del razzismo strisciante che ancora serpeggia in America e in particolare tra i giurati dell'Academy Award? Difficile rispondere con sicurezza (ma anche un grande vecchio come Sidney Poitier sostiene di sì). Due cose sono certe. La qualità straordinaria della sua performance (del resto già premiata alla Berlinale) e il fatto che, del razzismo, fu vittima ben più sfortunata di lui il personaggio che interpreta in questo film: Rubin "Hurricane" Carter, incolpato nel '67 di un triplice omicidio non commesso, condannato all'ergastolo e costretto a scontare lunghissimi anni di carcere prima di ottenere la riabilitazione. La storia vera del pugile, all'epoca in lizza per il campionato mondiale dei pesi medi, mobilitò personaggi come Muhammed Alì e Bob Dylan, che a Carter dedicò una celebre ballata, "Hurricane", appunto. A dimostrarne l'innocenza fu un gruppo di attivisti canadesi dei diritti umani, i quali avevano letto il suo libro autobiografico e che il film diretto da Norman Jewison riduce a un quartetto di moschettieri, paladini della giustizia. L'inizio è coinvolgente. Poi Hurricane. Il grido dell'innocenza va progressivamente in decelerazione a causa di una storia di cui, in capo a una mezz'ora, ti sembra di conoscere (e non ti sbagli) già tutti gli sviluppi. Per cercare di ovviare all'inconveniente, il veterano regista canadese si sforza di costruire un meccanismo a suspense. Senza che il risultato convinca granché: colpa di una semplificazione troppo didascalica della storia autentica, dalla quale vengono scrupolosamente cancellate tutte le implicazioni ambigue, e dell'introduzione di un poliziotto cattivissimo, risoluto a mandare in rovina il protagonista e così schematico da viaggiare ai limiti della caricatura. Nulla di nuovo sul fronte del film di boxe, né del film carcerario, né del film biografico insomma: solo un prodotto dignitoso, ben confezionato ma anche vagamente deludente. Che, non sembri un paradosso, finisce per far sentire ancora di più la propria insufficienza a paragone con la smagliante forma del suo protagonista. Nella migliore prova di una brillante carriera (sappiamo che Denzel progettava di interpretare la parte da una decina d'anni), l'attore passa con ammirevole credibilità attraverso un intero repertorio di sentimenti - la rabbia e la dignità, il dolore e la fierezza, la diffidenza, lo sconforto, la rivolta - quasi stesse rivivendo come una reincarnazione la terribile avventura di Carter.

Quantità e Qualità

CinemaEstate - LOGGIA AMULEA - PD luglio-settembre 2000