da La Stampa (Lietta Tornabuoni) |
Il Ruanda è un paese dell'Africa centrale, che da colonia tedesca diventò protettorato belga dopo la prima guerra. Alimentata dai colonizzatori europei in chiave di «divide et impera», la contesa fra le etnie locali degenerò nell'aprile 1994 in un genocidio nel corso del quale gli Hutu massacrarono a colpi di machete quasi un milione di appartenenti alla tribù Tutsi. Di tale orrore l'Occidente, che in altre recenti occasioni si è mobilitato per molto meno, non prese in pratica atto. A riportare all'attenzione quella tragedia arriva oggi un film di esemplare impatto civile e spettacolare, Hotel Rwanda di Terry George, che ha al centro Paul Rusesabagina, all'epoca direttore di un albergo di Kingali nel quale trovarono scampo mille perseguitati. Impersona questo Schindler africano l'attore Don Cheadle, giustamente candidato a un Oscar che meritava di vincere; e ne fa il classico uomo tranquillo che scopre in sé inaspettate risorse, contrapponendo al caos una coscienza vigile e un coraggio a tutta prova. Hutu sposato a una Tutsi (Sophie Onekedo), Paul crede nella civiltà: ha studiato in Europa, conosce le lingue, è vestito in modo inappuntabile e sa essere discreto, ma quando comincia la carneficina, e con la sua stessa famiglia in pericolo, il suo mondo di sicurezze va a pezzi. A proteggere i Tutsi rifugiati nell'albergo ci sarebbero i caschi blu dell'ONU comandati da un animoso ufficiale canadese (Nick Nolte), che però ha l'ordine (assurdo, vista la situazione) di non sparare. E tuttavia, continuando a operare in un'apparenza di normalità mentre montano il disordine e la violenza, Paul riesce in un'impresa che pareva impossibile. Il film ripercorre gli eventi mantenendo il più possibile l'orrore fuori scena, senza patetismi né ricercatezze, ma ad accapponare la pelle basterebbe la notizia che i ribelli massacrano i bambini negli asili per cancellare la razza. Di fronte a questo referto semplice e teso, l'emozione prende alla gola; e si vorrebbe che diventasse una regola universale l'affermazione finale di Rusesabagina. Il quale avendo riempito l'albergo ben oltre il limite della capienza, sostiene che «c'è sempre posto» per salvare chi è in pericolo. |
da Il Sole 24 Ore (Roberto Escobar) |
Violando le direttive della televisione per cui lavora, Jack (Joaquin Phoenix) è riuscito a documentare la strage che insanguina il Rwanda. Gli è bastato andare poco oltre il muro che circonda l’Hotel des Miiles Collines, a Kigali, e con la sua telecamera ha raccolto le immagini di donne, uomini e bambini tutsi uccisi dai machete della “milizia” hutu. Poi, le ha mandate alla sua emittente, quelle immagini, e il mondo le ha viste. Ora potrebbe esserne orgoglioso. Ma quando Paul Rusesabagina (Don Cheadle) tenta di ringraziarlo, Jack è duro e amaro. Certo, commenta, gli spettatori saranno inorriditi, e avranno interrotto la cena. Ma poi, esaurita la pietà, altrettanto certamente saranno tornati al loro piatto, tranquilli. Sta qui, in questa normalità abulica delle coscienze (e dei governi), il motivo dell’orrore raccontato da Hotel Rwanda. Un orrore che il regista Terry George e il cosceneggiatore Keir Pearson hanno tenuto, per così dire, nei limiti dell’Hotel des Milles Collines - e delle 1.200 e più vite salvate dal suo direttore fra l’aprile e il maggio del 1994 -‚ ma che vale per un Paese intero, e per il suo milione di morti. La storia di Paul Rusesabagina sarebbe potuta essere quella stessa di Gregoire (Tony Kgoroge), il portiere del suo Hotel che lo denuncia alla milizia. Entrambi hutu, a separarli non è stata una scelta morale né ideologica. In fondo, non è neppure stata una scelta nel senso di un singolo atto di volontà, esplicito e consapevole. A fare di Paul un eroe, e di Gregoire un complice dei persecutori e degli assassini - egli stesso persecutore e assassino -‚ è stato qualcosa di meno evidente, di meno “voluto”. Certo, la dimensione è pur sempre la morale, ma intesa come atteggiamento di fondo nei confronti della vita propria e degli altri, più che come somma di principi d’azione. Gregoire non vede e non sente i singoli uomini e le singole donne che chiama, nel loro insieme, tutsi. Per lui come per gli altri persecutori, sono tutti scarafaggi. E questo gli basta. Se attorno a lui non si scatenasse l’odio o meglio se attorno a lui qualcuno non scatenasse e non governasse l’odio, Gregoire resterebbe quel che è: un misero ometto, pago della sua tranquilla e aulica normalità. Capita invece che, tra il 1918 e il 1962, i Belgi abbiano creato e coltivato la contrapposizione fra le “etnie” hutu e tutsi, per governare la loro colonia. E poi capita che, finita l’occupazione, in Rwanda la maggioranza hutu visto nella minoranza tutsi quello che i belgi avevano voluto che vedesse: un gruppo contrapposto, un gruppo da odiare, e alla fine un gruppo da eliminare. Questo sentono attorno a sé Gregoire e i molti come lui. Basta che qualcuno ne approfitti - ossia, basta che, a scopo di potere e di guadagno, qualcuno lanci le parole d’ordine dell’etnia -‚ perché la tranquilla e abulica normalità si faccia normalità omicida. E basta, ancora, che a tutto questo s’aggiunga il silenzio e il disinteresse dei mondo, da Occidente a Oriente, perché agli assassini sia lasciata mano libera. Come direbbe Jack, il massimo che ci si può aspettare è che un po’ di cene siano (temporaneamente) appesantite da una dozzina di telegiornali. Anche Paul è hutu. Anche attorno a lui l’odio spinge a uccidere. Perché invece la sua storia personale va in direzione opposta a quella di Gregoire? Non è moralista, il direttore dell’Hotel des Milles Collines. E non è nemmeno un idealista. Al contrario, conosce bene le bassure in cui, per lo più, vivono gli esseri umani. Per lui, un sigaro da 10 mila franchi offerto a un trafficante (di birra e di machete) vale come un’apertura di credito. Ricorre con intelligenza e astuzia alla corruzione di generali avidi, quando serve. E ne blandisce lo stupido amor proprio. Non è nemmeno un eroe, Paul. E troppo realista, oltre che troppo innamorato della vita sua, di sua moglie e dei suoi figli. Eppure, senza deciderlo mai davvero, finisce per diventarlo, eroe. Lo diventa nel modo migliore: guardando gli uomini e le donne che gli chiedono aiuto, vedendoli come uomini e donne. Ogni volta, di fronte alla necessità di decidere se chiudersi nella normalità e nell’abulia del suo proprio “interesse” o aprirsi alla richiesta d’aiuto e ai rischio, Paul non sente neppure il bisogno di porsi la questione. Per lui, si tratta immediatamente e semplicemente di non lasciar morire e di non lasciar uccidere. Tutto questo, immediatamente e semplicemente, racconta il bel film di George e Pearson, in platea se ne vive l’emozione e l’orrore, e almeno per un po’ ci si vergogna d’una abulica tranquillità che nulla ha fatto per impedirlo. |
TORRESINO
- aprile 2005