Tutto
l'amore e la violenza della giovinezza in un film che ci riporta al cinema
libero e folle dell'America anni 70 con una storia di memoria e
tradimento, di fuga e riconciliazione. Tutti i salti, gli strappi, le
incoerenze, le improvvisazioni, le cose già fatte mille altre volte ma
sempre così belle ed emozionanti che sembrano nascere sotto i nostri
occhi, in un esordio che non può non far pensare al primo
Scorsese e a
Spike Lee. Anche se Dito Montiel, ex-musicista punk, ex-modello per Bruce
Weber, ex-galoppino dei gangster greci e italiani di Queens, scrittore
acclamato per un libro ancora non tradotto che porta lo stesso bellissimo
titolo del film,
Guida per
riconoscere i tuoi santi,
ha una voce tutta sua; così come appartengono solo a lui questa storia
divagante come un brano free jazz e i tanti personaggi che la popolano, a
cui il film accenna appena ma che danno ampiezza e profondità a questa
rievocazione appesa al filo della memoria.
Due epoche, due mondi. Pochi flash condensano il dopo: la fuga dalle "mean
streets" di Astoria, inferno e paradiso insieme, l'approdo in California,
la rinascita come scrittore di successo, nutrita dai ricordi cui attinge
anche il film. Il resto, cioè quasi tutto, è l'adolescenza di Dito. Dito
come il regista (ma "il film non è al 100% autobiografia", giura
Montiel), che da grande avrà il volto dolente di Robert Downey Jr.
nell'interpretazione meno esteriore della sua vita, ma da ragazzo ha la
faccia tosta e il passo svagato di Shia La Boeuf, il più riflessivo, si fa
per dire, di un gruppetto di amici a geometria variabile.
C'è il bruto incontrollabile che metterà tutti nei guai, il fratello pazzo
destinato a fine atroce, il gregario che tiene duro, il compagno di scuola
scozzese che vuole fondare una band con Dito (la nascita della loro
amicizia ispira una scena magnifica e fatta di niente, una gita verso
Coney Island che è quasi un condensato del film), un pugno di cattive
ragazze irresistibili su cui svetta la seducente ragazza di Dito (Melonie
Diaz, poi Rosario Dawson). Ma soprattutto ci sono i genitori di Dito, il
"latino" Chazz Palminteri e l'irlandese Dianne Wiest, coppia granitica
quanto mal assortita che condensa i rimpianti e i sensi di colpa del Dito
adulto, di ritorno dopo decenni per vedere il padre malato, ritrovare i
luoghi, le voci, i fantasmi di quel mondo sparito ovunque fuorché dentro
di lui. E forse, chissà, riconciliarsi con quella figura paterna così
amata e così soffocante, celebrata nei libri ed evitata nella vita.
Il tutto assemblato con logica musicale più che narrativa, con una
capacità di far parlare i corpi e gli ambienti che lascia senza fiato, con
una sensualità che traduce in immagini quello che i personaggi "sanno
benissimo ma non diranno mai", per usare la formula di Montiel, o diranno
solo per sbaglio (la dichiarazione sul balcone, altro pezzo di bravura).
In un film non privo di errori, autoindulgenza, ripetizioni. Ma ricco,
emozionante, motivato e inventivo come se ne vedono di rado. |