La felicità non costa niente |
da La Repubblica (Roberto Nepoti) |
Non si può dire un film veramente riuscito La felicità non costa niente; ma è un film sincero, generoso e che merita rispetto. E ha fatto bene Calopresti a prendersi la parte del protagonista, come l'amico-mèntore Nanni Moretti: anche se i suoi mezzi recitativi sono, a tratti, incerti, era una parte (una volta Gino Paoli disse lo stesso delle proprie canzoni) che poteva fare solo lui. L'architetto Sergio ha tutto: una moglie innamorata, un bel bambino, l'amante giovane, qualche vero amico e un lavoro che gli dà soldi e soddisfazioni. Ma due incidenti (l'uno in auto, l'altro che è costato la vita a un suo dipendente) gli scompaginano le certezze. Precipitato in una crisi profonda, l'uomo prende a dire quel che pensa fino a mettersi tutti contro; è depresso, ma nello stesso tempo cerca la felicità e ne rivendica il diritto. Come esiste la parola "amore" (era il titolo di un altro film di Mimmo), anche la parola "felicità" esiste, salvo che capire dove andarla a trovare è impresa difficilissima. Nella ricerca, Calopresti appare coinvolto (sia da regista, sia da personaggio) con un'intensità ai limiti del malessere, che si trasmette allo spettatore. Vengono in mente, per antitesi, i suoi documentari sulla Fiat; si direbbe che in lui esistano due anime in conflitto: quella della classe operaia e quella della sua "controfigura", l'architetto borghese in crisi d'identità. L'eccesso di coinvolgimento produce un esubero di narrazione, fa slittare la voce narrante da un personaggio all'altro, rende macchinosa la storia. Però ci sono belle idee registiche: prima fra tutte quelle di una Roma distante, sempre inquadrata dall'altro. Quanto all'esito della ricerca di Sergio, resta aperto, ambiguo, stranamente in bilico tra il pessimismo cronico e un ottimismo cosmico. Andate a vederlo, poi riparliamone. |
LUX - febbraio 2003