E
morì con un felafel in mano (He Died with a Felafel In His Hand - 2000) |
da Film Tv (Alberto Crespi)
Se vi dicessero che sta per uscire un film sulle difficoltà della convivenza, penserete subito (giustamente) a uno di quei tremendi film italiani "due camere e cucina". Ma E morì con un felafel in mano è diretto dall'australiano Richard Lowenstein, che già in passato ha dato ottime prove di visionarietà (Dogs in Space su tutti). Ci si muove, quindi, in altri territori. Il fatto che Danny (Noah Taylor) stia vivendo la convivenza con amici numero 47, e durante il film arrivi alla numero 49, è uno spunto per spiazzanti incursioni oniriche, piuttosto che per pallose riflessioni sociologiche. Anche perché Danny è uno scrittore, o vorrebbe essere tale, una fedele Underwood lo accompagna dovunque vada e forse ciò che vediamo è tutta una sua fantasia. Lowenstein "apre" moltissimo il romanzo di John Birmingham (uscito in Italia per Theoria, ma ora la Fandango, anche produttrice del film, lo ripropone) inventando il personaggio di Danny che è sostanzialmente un "doppio" dello scrittore. C'è nel film un senso di "vorrei ma non posso", una ricerca ossessiva del divertente, ma c'è anche un lavoro su ambienti e fotografia davvero notevole. Un oggetto filmico stravagante, esotico dal sapore insolito. Come un felafel.
da La Repubblica (Roberto Nepoti)
Il titolo Un personaggio del film muore mangiando un felafel, la celebre polpetta mediorientale. È un episodio tragico in un impasto continuo di situazioni assurde e grottesche. Articolato in capitoli con tanto di didascalia introduttiva, E morì con un felafel in mano mette in scena le migrazioni di Danny (Noah Taylor), nevrotico aspirante scrittore sulla trentina, fra Brisbane, Melbourne e Sydney; le sue coabitazioni con individui regolarmente schizzati, la difficile relazione con l'amica/amante Sam (Emily Hamilton), gli incontri con profetesse dark (Romane Bohringer), neonazisti, poliziotti dal grilletto facile. Completamente alla deriva, Danny cerca di mettere assieme i frammenti della propria esperienza prima di cedere completamente al crollo nervoso; compito improbo, poiché l'assunto del film si può sintetizzare nel celebre aforisma sartriano "l'inferno sono gli altri". La struttura narrativa è praticamente virtuale, mentre i personaggi entrano e escono di scena ciascuno con la propria eccentricità e le proprie ossessioni. Le città australiane sono rappresentate in maniera altrettanto estrema, fra la parodia della metropoli alla Miami Vice, l'angoscia kafkiana, la miseria materiale e morale, la pioggia che non concede tregua. Malgrado ciò, non mancano i momenti divertenti; anche se, sotto, serpeggia sempre un senso di atroce pessimismo. La bizzarria, si diceva, è il carattere dominante del film di Lowenstein. Anche se a tratti si smarrisce fra citazioni cinefile e omaggi incongrui a Jean-Luc Godard, E morì con un felafel in mano potrebbe diventare un film-caso, perché racconta la disperazione, la perdita della rotta di una generazione che ricorda molto quella di un film come Trainspotting o quella anche se più piccola d'età di un film come L'odio.
TORRESINO dicembre 2001