Un lungo, insinuante viaggio verso la morte, una delle poche, vere "esperienze cinematografiche" di questa stagione. La storia di William Blake, un contabile che arriva nell'Ovest in cerca di un lavoro, perde subito le componenti avventurose del western per trasformarsi in una peregrinazione iniziatica, in una fuga dal mondo fatta di visioni e allucinazioni in fondo alla quale c'è la morte invece che il paradiso delle droghe artificiali. Lo spazio della frontiera (come linea geografica da superare giorno dopo giorno) diventa qui un limite interiore, spirituale, tutto introiettato: cow-boy, bounty killer, indiani, sceriffi non sono le tappe di un'avventura o di un'esperienza fisica ma piuttosto i cippi che scandiscono la strada verso un universo alternativo perché mentale. Jarmush ha il coraggio di non inseguire il cinema "dominante" (aggressivo e iperrealista) e di proporre invece un film che scava dentro di noi, che ci obbliga a confrontarci con il limite della nostra finitezza piuttosto che farci credere nell'immortalità dei nostri (falsi) eroi. Cinema "politico" perché costruito sul senso di "invivibilità" che oppone gli uomini al mondo, cinema "iniziatico" perché basato sull'esperienza della estraneità e della frammentazione (come la scansione del racconto in piccole scene che si aprono e si chiudono sul nero) e che ci obbliga a misurarci con il lato oscuro che ci trasciniamo dentro. Come in un "viaggio" psichedelico. Lisergico. |
Paolo Mereghetti - Sette |
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Il buon caro, vecchio western in bianco e nero? Nient'affatto. Il west di Jarmush è stilizzato, mefitico ed estraniante. Il suo protagonista, Johnny Depp, è un viaggiatore solitario che affronta con metaforica irruenza i territori sconosciuti, della frontiera e del proprio esistere. Non per niente si chiama William Blake e l'eco del poeta inglese risuona nelle "proverbiali" citazioni del suo compagno, l'indiano Nobody. Sparatorie yankee e misticismo indiano. e.l. LUX (cinema d'autore) giugno-luglio 1996 |