Il Cinema che parla di Cinema è sempre un'esperienza preziosa. Il processo di ricerca e raccolta, e successivamente di montaggio e racconto, e il modo in cui si riflettono con l'esperienza visiva dello spettatore creano inevitabilmente un'alchimia che appare magica, riuscendo a rievocare in maniera quasi inaspettata la natura effimera della settima arte. È quello che accade durante la visione dell'ultimo documentario di Bill Morrison, presentato alla 73esima Mostra d'Arte Cinematografica di Venezia; in Dawson City: Frozen Time si parte infatti da un luogo, come suggerisce il titolo, la città di Dawson nel Klondike, e ci si ritrova tra le mani, preziosi come un filone d'oro, chilometri di celluloide che si credevano perduti per sempre. Morrison torna a vestire i panni del regista archeologo adoperandosi a “riordinare” i numerosi materiali ritrovati casualmente durante alcuni scavi negli anni Settanta. Il documentario ripercorre i tempi della caccia all'oro: alla fine dell'Ottocento Dawson era una terra canadese abitata solo da nativi americani, in pochi anni si trasformò nell'Eldorado della leggenda, una città in espansione continua, in cui si riversavano senza sosta centinaia di famiglie e giovani sognatori. Una celebrazione della cultura americana in tutte le sue sfaccettature e con tutte le sue contraddizioni: i Trump e i Guggenheim, tra gli altri, sono passati di li. C'era chi dragava il fiume e chi costruiva imperi sull'intrattenimento. Così oltre alla case di piacere, a Dawason arrivò il cinema, quello muto dapprima e in quantità incalcolabili. Il cinematografo era una dei passatempi preferiti dai cercatori d'oro, perché i film raccontavano le avventure di chi ce l'aveva fatta, i film erano sogni che si realizzavano.
Il cinema è nato grazie agli esplosivi, ci ricorda da subito Morrison, le esplosioni delle pellicole in nitrato d'argento e quelle della dinamite che ha modificato per sempre il territorio. Nelle fondamenta dell'America moderna si è scritta anche la storia del cinema, e oggi quei materiali ci permettono di decifrare la morfologia di Dawson e l'epopea americana. Reperti dimenticati sotto terra, gettati sul letto dei fiumi o custoditi in gelidi caveaux perché appunto pericolosi, o perché nel frattempo il cinema si arricchiva del sonoro e contemporaneamente finivano i giacimenti di materie preziose.
Bill Morrison smussa lo sperimentalismo con cui aveva organizzato il found footage di Decasia (2002), preferendo un approccio più semplicemente cronologico e lineare all'infinito e disorganizzato materiale ritrovato. Combina sapientemente immagini e musica, didascalie e voce off – che appare solo quando nella narrazione appare il sonoro nelle pellicole – lasciando che la Storia (d'America) e il Cinema si fondino in un racconto che ha i contorni evanescenti della fiaba, gli scenari e i volti scavati di un western e i colpi di scena di un noir. C'è l'emozione infantile della scoperta e il fuoco della passione di amori capricciosi, mentre si fanno strada delinquenti senza scrupoli o trovano la proprio strada giovani ambiziosi e squattrinati. Nei riflessi rovinati dal tempo di film mai visti è possibile ritrovare la memoria di tutta la settima arte, una “scoperta” dal valore inestimabile. Il cinema è di per se un'esplosione. |
Valentina Torresan - novembre 2016 - pubblicato su MCmagazine 41 |