Tra un fìash-back e l’altro, la vicenda di Come eravamo abbraccia circa tre lustri: dal ‘37 agli inizi degli anni cinquanta, cioè dalla vigilia della seconda guerra mondiale alle mobilitazioni popolari contro la bomba atomica. Il film è un tipico prodotto dell’operazione nostalgia: favoleggia agli spettatori, con toni delicati alla Scott Fitzgerald, di un’epoca dove tutto sarebbe stato meno grossolano che al giorno d’oggi (ma Scott diceva le stesse cose degli anni venti, scrivendone nel cuore del decennio successivo). Robert Redford, bello e dannato, è uno scrittore dotatissimo, troppo arrendevole ai richiami della dolce vita; Barbra Streisand, bruttina e superimpegnata, è una comunista ebrea che ha fatto di Roosevelt il suo dio e crede di poter cambiare il mondo. Come eravamo è la cronaca del loro incontro e dei loro scontri, dalle scaramucce del college al matrimonio dopo la guerra, per finire in quel cimitero degli elefanti (intellettuali) che una certa letteratura ha collocato a Hollywood. Si tratta, però, di una Hollywood vista per la prima volta senza ipocrisie negli anni della caccia alle streghe. Qui dentro c’è materia per due film, di cui il primo (quello che arriva alla morte di Roosevelt) sarà certo accolto più cordialmente perché tocca temi che non riguardano solo un’élite. Però tutto lo spettacolo, animato da due interpreti stupendi, ha il fascino vincente delle cose riuscite; e la figuretta di Barbra, che continua a squillare i suoi slogan democratici nel finale amarognolo, è un atto di fede nella continuità dell’illusione. E (perché no?) un invito a non mollare.
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Tullio Kezich - La Repubblica |
Lo stile è quello tipico di Pollack. Assente un puntuale sviluppo narrativo, la situazione di base nella sua complessità, è presentata in un gioco di trasparenze successive ove si riconosce una compresenza irrisolta di valori antitetici e il mancato superamento dialettico del singolo momento narrativo e/o dell’intera vicenda. Il film è ricco di richiamo e rispondenze tra situazioni, momenti, motivi. I protagonisti scoprono di essere attratti reciprocamente proprio per ciò che loro manca: la speranza, il coraggio, l’ideale (Hubbel), la bellezza, il successo (Katie). Riescono ad amarsi e a convivere, quando la crisi di coscienza provocata dalla guerra li pone di fronte alla paura della solitudine. Hanno bisogno entrambi di un’iniezione di fiducia: in se stessi, nella vita nel proprio lavoro, lui; nella sua attrattiva fisica, (il rilievo dato al cambiamento di pettinatura), e nelle proprie capacità comunicative, lei. Si lasciano quando scoprono di non poter più credere ciecamente nell’avvenire e che la realtà americana è quella di sempre; non c’è più posto per la spensieratezza né per l’ottimismo cieco. Hubbel non ha più il coraggio di credere nell’utopia, di resistere contro tutti, ma soprattutto contro se stesso. Katie non riesce più ad accettare il compromesso, pur se ciò le costa l’amore. In questa prospettiva il film potrebbe davvero rappresentare qualcosa di più: nasce e finisce sotto il segno della solitudine esistenziale, della sconfitta, anche se nel rispetto per il valore di testimonianza di ogni comportamento umano. C’è una sorprendente analogia tra il finale di Corvo Rosso non avrai il mio scalpo e quello di Come eravamo. Jeremiah Johnson sceglie di vivere la sua vita come negazione della possibilità di rapporti umani che non siano quelli della lotta. L’epilogo della storia, proprio perché rifugge da una conclusione di maniera, diviene altresì emblematica del rispetto verso il valore di testimonianza dell’esistenza altrui. Così Katie e Hubbel continueranno ad amarsi, rassegnandosi però a vivere separati perché l’altro, per quanto amato o rispettato, non è riuscito a modificare la propria esistenza. D’altra parte non è che Katie sia il modello convincente nonostante la sua purezza e il suo ottimi smo. Ecco allora che il film è davvero un flash-back sulle proprie speranze giovanili: su che cosa eravamo, su come eravamo. Ma entrambi i protagonisti sono al presente, alla fine cioè della vicenda, degli sconfitti: Hubbel perché è rimasto un tipico americano decadente, come l’America voleva che fosse; Katie perché è tornata ai margini della società, ridotta a sperare più che a vivere.
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Franco Bellingeri - Letture |
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Sidney Pollack (1 luglio 1934 - 26 maggio 2008) |
cinema invisibile TORRESINO ottobre-dicembre 2008