La città della
gioia (City of Joy) |
Cosa aspettarsi da un film come La città
della gioia? La descrizione commossa e partecipe del romanzo originario
di Dominique Lapierre o lo sguardo panoramico, l'epica rappresentativa
del Roland Joffé di Urla del silenzio
e Mission?
"Il film non è fedele al libro. C'è lo spirito de La Città della gioia, ma con Lapierre abbiamo convenuto che non si poteva fare un adattamento pedissequo". Le premesse da cui il regista parte non suppliscono, per buona parte dell'opera, alla ricostruzione patinata, alla superficialità del conflitto interiore del dottor Max (Patrick Swayze), chirurgo americano transfuga a Calcutta per ritrovare le fila della propria identità di uomo e di medico. E' lui il primo protagonista de La città della gioia (la sceneggiatura ha emarginato la figura del sacerdote francese, presente nel libro, per non rischiare un surplus di retorica), ma gli è accanto, in una crescita parallela di maturazione ed amicizia, l'umile contadino Hasari, esule a Calcutta con moglie e figli, senza casa né lavoro. Le loro esistenze confluiscono nella baraccopoli dove la miseria e la fame coabitano con le angherie della mafia locale, con la sconvolgente degradazione fisica della lebbra, ma pure con una forza d'animo ed una solidarietà alle quali non è possibile restare indifferenti. "Città della gioia. E' il nome geografico o simbolico?" - chiede Max alla connazionale Joan, missionaria laica attorno alla quale ruota la marea umana dei diseredati. Il biondo americano tutto contraddizioni emotive ed ideali da nuova frontiera è davvero "un albero senza radici", la banalità del suo dialogare con Joan fa da zavorra ad una vicenda che, tutta costruita su situazioni e descrizioni d'ambiente, trova grande difficoltà a configurarsi come "storia". Nella sua preoccupazione di fotografare con obiettività documentaristica un mondo-altro di grande dignità interiore, Joffé rischia di continuo la patinatura da cartolina illustrata e se non fosse per la coinvolgente veridicità del paesaggio umano che descrive e per il peso contestuale del personaggio di Hasari e del suo interprete Om Puri, davvero si potrebbe condividere quella definizione di "pornografo della povertà" con cui una scrittrice indiana attaccò il regista al suo arrivo in India. Nel finale invece il film di Joffé riesce meglio a convincere, l'arrivo delle piogge "lava" lo schermo dalla ridondanza dei preziosismi fotografici occidentali, i riti della tradizione matrimoniale risultano più suggestivi degli scoppi di violenza tra potere e povertà, e, mentre la macchina da presa si allontana lasciando la Città della gioia come un piccolo punto luminoso nel buio di Calcutta, anche la banalità dei dialoghi trova alfine qualche sprazzo di riscatto: "Non ci hanno reso facile fare l'essere umano - Ma sarà per questo che dà tanta soddisfazione battersi svantaggiati..." e.l. cineforum ITIS Natta Padova - gennaio 1991 |