Prendiamo il cinema come arte pura, fatta di immagini e naturalezza, e
prendiamo uno splendido stallone di razza a simbolico alfiere. Pensando poi al cinema in cattività nella gabbia d’oro del business
produttivo, imbrigliamo lo sfortunato equino in una bardatura
elettrica fatta di fili e lucette luminose. Incorniciamo quindi il
tutto con la metafora del western urbano (<civilizzazione»
progressista del genere principe della cinematografia americana) e la
«parabola» sarà pronta alla predicazione schermica: nostalgia
accattivante e morale risanatrice sapranno cavalcare, come sempre, l’arcobaleno di celluloide ed ancora una volta la scatola hollywoodiana sarà
stata confezionata a puntino, ansiosa di sciogliere, davanti al
pubblico muto nella sala buia, il suo bel fiocco luccicante di
illusioni. Così quando dall’interno della scatola cominciano ad uscire
le immagini di un impavido cow-boy di rodeo che ha ormai bruciato il
suo successo tra premi ed ossa rotte, sappiamo già che la favola è
sempre la stessa, che certo cinema vive cibandosi del proprio
cadavere, ma che lo zombie-hollywoodiano è un professionista
affascinante e che vale la pena di lasciarci prendere la mano (e gli
occhi e la mente) quando la firma è quella di Sidney Pollack, il passo
della cavalcata lo tiene Jeremiah Johnson — pardon, Robert Redford —
e il titolo del film, una volta tanto, traduce fedelmente la
splendida dicitura originale,
Il cavaliere elettrico.
Sonny Steele (R.R.) si è stancato di capitomboli e radiografie, le sue galoppate sono ora sponsorizzate dal «Ranch
Breakfast» ed egli può affogare in libertà il suo vuoto presente nel
whisky, tanto ha due fidi amici che lo spupazzano in Cadillac da un
meeting pubblicitario all’altro ed i cavalli che deve montare, tutti
imbellettati di lucette, non sono che simpatici ronzinj che lo tengono
in sella anche quando il sonno della sbronza è più forte degli applausi degli spettatori.
Non conta che Redford-Sonny snobbi l’ambiente, che si senta quasi un
eroe crepuscolare di un mondo strangolato dal mercato delle
multinazionali: il compromesso è tutto suo — non c’è Barbra Streisand
a consolarlo con The way we were — e la sua foto-cartellone col
volto sorridente, il costume sgargiante e la scatola di corn-flakes in
mano è l’unica immagine reale di se stesso, il biglietto da visita
nazionale di «The Ampco Cowboy», casa tutta confort a Malibu Beach,
matrimonio fallito, bottiglia sempre in mano e improrogabile in contro
stampa a Las Vegas.
Qui non c’è solo la luce fredda dei flash, la pagliacciata luminosa
nel recinto di terra battuta, ma pure il caos della ricca metropoli,
la scintillante ottusità delle slot-machine, i commenti insipidi dei
producer, le taglienti occhiate delle telecamere e le sardoniche domande dei «valletti» dei mass-media. Tra questi c’è Hallie (Jane
Fonda) — sorella di latte, si vede subito, della Kimberly Welis di
Sindrome cinese — e sue sono le domande più infide, sue le
allusioni più pesanti. Ma mentre Sonny fatica a tenerle testa e a
risponderle per le rime, noi, con lo sguardo smaliziato e saturo di
«happy ends», capiamo subito che tra quei due estranei, che si
incontrano per la prima volta, l’idillio è già cominciato, che prima o
poi si riincontreranno e finiranno sicuramente d’amore e d’accordo.
Ma non badiamo all’incrinatura! Il «nostro» scopre che per lo
spettacolo di turno non avrà la prateria in cui sbizzarrirsi ma un
«bel» palco illuminato e che sotto la sella sentirà agitarsi non un
cavallo qualsiasi ma nientemeno che Rising Star, stallone di razza,
grande campione un tempo ed ora pure lui costretto a soggiacere alle
regole dei gioco, intruppato nei pochi metri quadrati dietro le
quinte, a disagio ed imbottito di tranquillanti. Sonny lo accarezza,
sembra ritrovare nell’umiliazione della povera bestia la spina
inaccettabile del proprio orgoglio ferito (non si svendono così anche
i cavalli!), gli balza in groppa e via!
Una imprevista passerella tra il pubblico elegante ed eccitato, una
gimcana tra il tintinnare delle macchine a gettone, poi fuori per una
galoppata liberatoria
nella notte di Las Vegas:
con le lucette lampeggianti a completare la cornice surreale delle
insegne luminose, con la coscienza mitica della propria trasgressione
e... con il plauso scenico per la perfezione formale dell’effetto
visivo che suggella in poche immagini il carisma comunicativo di
tutta la pellicola.
La parte seguente del film è ben poca cosa in confronto. L’ariosa
«redenzione» negli spazi aperti si brucia in un meccanicismo retorico
ove compaiono necessariamente l’oppressiva ed insinuante filosofia dei
mezzi di comunicazione nel vivere quotidiano, la favorevole mano di
coincidenze che asseconda la riscoperta dei puri ideali, la
melensaggine della immancabile love story che arriva a far scolorire
persino la maestosa cromaticità dei paesaggi americani.
C’è comunque la sequenza inebriante della fuga dal blocco stradale
con lo slalom di Rising Star tra le auto e le moto della polizia, che
fa rivivere l’epopea di un’alleanza uomo-cavallo superiore,
nell’intima intesa e nel risultato pratico, al progresso tecnicistico
del motore a scoppio. E c’è pure da notare il tocco pulito che caratterizza
Il cavaliere elettrico e che, se tal volta degenera in
una monotonia squalificante, qua e là riesce anche a non perdersi del
tutto nella piega banale dei moralismi ecologici (la riconquista
libertà del cavallo nei pascoli dello Utah) o arrivistici (la crisi
nel professionismo cinico della reporter a caccia di «scoops») o
sentimentali.
Resta in ogni caso quella suggestiva cavalcata elettrica la quale,
oltre che a far da iceberg stilistico, riassume la tematica,
estrinseca e metalinguistica, del prodotto.
Nel mito della fuga dalla massificazione cosmopolita verso l’eden
naturalistico della tradizione USA (la prateria) s’innesta il tramite onirico e catartico dell’oscurità (la notte in cui si immergono
cavallo e cavaliere) e l’abbraccio compromissorio tra il luccichio del
singolo (le lampadine dei due) e il grande sfavillare del tutto
(l’illuminazione di Las Vegas) Non è solo un connubio figurativo per
la plasticità del quadro, è pure il tributo implicito all’abbagliante
onnipotenza del progresso, del consumismo e del linguaggio dei
«media»: per sfuggire ai controlli Sonny deve nascondersi in un
maxi-camion (tipo quello che falciava Kirk Douglas in
Solo sotto le
stelle), per poter completare la sua «missione» deve portare dalla
sua parte l’opinione pubblica (e quindi incrementare le vendite!);
per far questo, per difendere se stesso e Rising Star, deve
«passare attraverso» l’occhio industriale della telecamera di Hallie:
proprio come per varcare le strade della città-baraccone ha «dovuto
addobbarsi» da centauro natalizio... Proprio come l’ambiguo ribellismo
del nuovo cinema americano ha dovuto fare i conti con la grandiosità
del mostro commerciale, costringendo i registi come Pollack ad
inseguire a fatica il proprio messaggio d’autore mentre si
invischiano, senza alternativa, tra il lievito e la melassa del
megapasticcio hollywoodiano. |