“Studia bene il violino, Alphonse: se studi e
hai talento diventerai un grande musicista”.
“E se non lo faccio?”
“Se non studierai e prenderai molte stecche farai il critico
musicale”.
Con questo dialogo tra Antoine Doinel e il
figlio in L'amore fugge,
François Truffaut ironizzava su un ruolo (quello del critico) che di
fatto gli è sempre appartenuto e ben conosceva, e su un mondo (quello
della critica) disilluso, probabilmente immerso in qualche strato di
frustrazione, variante fine a se stessa di un desiderio irresoluto.
Al di là del gioco, esiste la possibilità - come ci ha dimostrato
Truffaut e gli altri autori della Nouvelle Vague - che sia possibile
una critica a(lterna)(t)tiva, con la quale è possibile misurarsi,
conoscere, formare una visione dell’insieme per definire una personale
esigenza creativa. Una necessità che richiede di essere soddisfatta e
porta il critico a scegliere di essere il demiurgo delle proprie
fantasie pulsionali nonché l'artefice dell’oggetto da sempre conteso.
Café noir
è l’esordio alla regia di Jung Sung-il, un famoso e stimato critico
cinematografico coreano (tra 1989 al 1999 è stato redattore capo di
“Road Show” e “Kino”, le più importanti riviste specializzate in
Corea, poi coordinatore per la Korean Academy of Film Arts, per il
Pusan International Film Festival e per la cineteca di Seoul) e ora
autore dell’opera certamente più enigmatica, seducente, introspettiva,
raffinata e intellettuale vista a Venezia 66.
Il racconto trae origine da due romanzi chiave nella letteratura sui
sentimenti:
Le notti bianche (1848) di Fëdor
Dostoevskij e I dolori del giovane Werther
(1774) di Wolfgang Goethe. Due opere con al centro l'amore,
profondamente agognato e indispensabile ma fatalmente inaccessibile,
immerse e rielaborate in un universo di figure, suoni, colori, parole,
sincretiche, attuali e ineccepibili. Il protagonista è sempre un
insegnante elementare. Nella prima parte soffre per il suo amore
proibito, madre di una sua piccola allieva e moglie di un soldato
rozzo e brutale. Vaga per la città cercando una fuga al dolore, si
intrattiene con una collega follemente innamorata di lui, la quale,
per gelosia, scrive lettere anonime indirizzate al marito dell’amante
rivale. Nella seconda parte l’insegnate incontra una giovane donna in
attesa del ritorno del suo amore, il quale le ha promesso di tornare
dopo un anno e sposarla. Ora l'anno è passato ma lui non è ancora
ricomparso. Il maestro decide di ascoltare le pene d’amore della
ragazza: entrambi stanno aspettando i rispettivi amanti che non fanno
ritorno.
Le due parti sono chiaramente divise e legate da un raccordo
ambientato in una libreria ove si vede il protagonista prendere dagli
scaffali i due libri dai quali è ispirato il film stesso. Attraverso
questo espediente il personaggio è come se si mostrasse in una veste
extradiegetica, cosciente del proprio ruolo di moderno
Werther-Sognatore, e il suo sguardo si posasse sul déjà vu
dell'esistenza umana. La forma assume così un'importanza strategica
laddove le storie si ripetono circolarmente: in
Café noir
ogni elemento segue un andamento preciso, rigoroso e ponderato,
predisposto su un terreno dall'elaborato impianto teorico, connubio
interdipendente di simbolico e immaginario. Nella messa in scena non
passa mai in secondo piano l'ambiente (la Natura) entro cui si muovono
i personaggi: la città di Seoul nei suoi incantevoli e desolanti
scorci sembra riverberare intimamente la disposizione dei sentimenti
degli esseri umani che la popolano. Il richiamo - non a caso - alla
Nouvelle Vague è sacrosanto: il parlare d’amore lungo le vie di Seoul
ricorda nitidamente i colloqui rohmeriani (ma non solo) per le vie di
Parigi o seduti al tavolo di un caffè o a una panchina. Ma allo stesso
tempo Sung-il è strettamente legato al cinema coreano d'autore,
proprio quello che si è fatto conoscere grazie ai festival anche in
Europa, omaggiato più o meno palesemente e ironicamente in molte
sequenze, e rintracciabile nell'uso specifico della parola e della sua
assenza, nella propagazione del tempo, dell'attesa, del respiro.
Tecnicamente il quadro (catturato su supporto digitale) non offre mai
la polarizzazione di un unico punto di visione e la profondità di
campo ricopre un'importanza evocativa unica e imprescindibile, i suoi
movimenti sono calcolati con severità matematica, l'illuminazione
sembra condensare e raffreddare i corpi in fotografie
antinaturalistiche (il colore e il bianco e nero si susseguono) che
compongono piani sequenza prolungati nell'attesa incontrovertibile di
un rapimento estatico.
Dopo centonovantasette minuti il registro sublime e sentimentale
sopravvive inalterato e la sensazione di abbandono domina lo
spettatore imperituro. Un abbandono puro e totale alla pervasività
della bellezza travolgente dell'amore per il cinema. Una distensione
degli occhi che consente di guardare attraverso il cinema per arrivare
a capire il mondo.
“Il tempo morto del film è il tempo reale in Corea, il tempo in cui
dimora la nostra disperazione”. Una disperazione che è la sinfonia
dell'animo umano trafitto dalla passione, catartica e universale,
legame viscerale, degli occhi del cinefilo per la propria vita sullo
schermo.
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