Big Big World
(Koca Dünya) |
VENEZIA 73 PREMIO SPECIALE DELLA GIURIA ORIZZONTI |
La grandezza del mondo è costretta nelle dimensioni che l’affettività umana è capace di esplorare. Un terreno periglioso, acre e maleodorante quello non ben definito ma saggiamente (de)strutturato da Reha Erdem, uno degli esponenti di maggior talento della cinematografica turca contemporanea, che porta a Orizzonti di Venezia 73 il suo nono lungometraggio, avvolto in un’estetica sospesa tra la favola dai contorni scuri e dalla incredula magia e un piceo e tragico realismo denso di significati politici. Koca Dünya (Big Big World) è caricato tutto sulle fragili spalle dei due giovani protagonisti, Ali e Zuhal, un ragazzo e una ragazza nel pieno della loro adolescenza, cresciuti assieme in un orfanotrofio come fossero fratello e sorella e costretti a fuggire via da tutto e da tutti e rifugiarsi in un bosco che per loro diventa un’isola deserta. Il ragazzo, dal volto acerbo e contrito di un bambino cresciuto troppo in fretta, si mantiene tra furti e riparando motociclette in un’officina improvvisata dispersa nel nulla; la sorellina invece è destinata a diventare la seconda moglie del vecchio padre della famiglia che l’ha adottata. Per salvarla dal mesto destino Ali è costretto a sporcarsi di sangue e incamminarsi verso una meta sorretta da un’incallita e amorevole speranza stretta nell’incoscienza di chi non ha avuto modo di conoscere ancora il mondo. E così i due improvvisati fuggiaschi, senza alcuna possibilità di un’esistenza serena, si ritrovano a ripercorrere l’intera storia dell’uomo, partendo da zero. “Dopo la nascita ognuno di noi ha bisogno di un altro tipo di abbraccio: quello di una madre o di un padre. I bambini che non hanno mai provato quell’ ”abbraccio” finiscono per incamminarsi per sentieri più faticosi e crudeli in questa vita. Hanno l’animo a pezzi e il corpo ammaccato. Questo film parla di un fratello e di una sorella che non hanno mai provato quell’abbraccio, e della loro lotta per aggrapparsi alla vita”.
A che mondo possono appartenere questi due ragazzi? La distruzione di ogni identità specifica, sia essa sociale, familiare, culturale, etnica, religiosa si riflette in quella di una nazione allo sbando, dove si mette in dubbio, in ultima istanza, la possibilità stessa di poter vivere. Il cinema turco, di volta in volta, attraverso le rappresentazioni dei suoi autori, instaura un dialogo disperato e bisognoso con il mondo esterno, adottando strategie comunicative rigorose, indomite, ricercate e a tratti innovative, come accade spesso nei territori compressi da regole censorie. Non a caso dunque l’ambivalenza della favola cavalleresca: le azioni del piccolo Ali sono atti eroici che liberano la sua principessa dalla condanna di un destino avverso lontano dall’amore e il bosco è il luogo prediletto per ogni avventura, denso di misteri e sorprese. La realtà sociale e politica di una terra e di un popolo entra di prepotenza nella rappresentazione simbolica attraverso un meccanismo proiettivo che ne amplifica la portata senza per questo risultare omologato e approssimativo. Anzi, il contributo tecnico e fotografico di un nome come Florent Herry (fedele collaboratore del regista e anch’egli formatosi in Francia) restituisce un corpo rilucente di una fantasia seduttiva e una dolcezza inattesa ad una narrazione che non lasca mai scampo alla crudeltà e alla miseria. Un’estetica della solitudine e dell’abbandono, dove il mondo e la civilizzazione sono sinonimo di un connaturato rifiuto, di un pericolo costante e di un’aggressività ferina e cannibalica. Erdem ha una sensibilità commovente nel fondere i registri narrativi e i sentimenti. Un’abilità che prosciuga la narrazione e lascia trasparire quel grande grande mondo in cui l’arrogante presunzione della vita cerca invano di affiorare.
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Alessandro Tognolo - novembre 2016 - pubblicato su MCmagazine 41 |