Un affare di gusto
(Une affaire de goût) |
da Il Corriere della Sera (Maurizio Porro)
Uno dei film più curiosi, originali, stimolanti della stagione.
Difficile e ingiusto classificarlo: il fatto che si sappia subito che
Nicolas ha ucciso il suo padrone Fréderic, ma conoscere la ragione ci
porta sulla strada del giallo, del noir. Quando ci addentriamo nei fatti,
ascoltando in stile Rashomon le varie versioni della «verità» mentre si
prepara l’istruttoria per il colpevole in carcere, capiamo che Bernard
Rapp, al suo secondo film dopo Tiré à part, mira più alto. Travisando a
piacere, anche nel finale, il romanzo di Philippe Balland Affaires de goût
, il regista, complice Gilles Taurand, lo sceneggiatore di Téchine e del Tempo proustiano di Ruiz, offre una variazione sul celeberrimo tema
marxiano servo-padrone, che aveva così ben ossessionato Losey, innamorato
di uno straordinario personaggio limite, quasi hitchcockiano, eccentrico
portatore sano del dubbio dell’esistenza. TORRESINO giugno 2001
Si chiama Frédéric Delamont, è
un industriale ricco, pieno di fobie, nevrosi e allergie, che assume come
assaggiatore di cibi un giovane cameriere di bell’aspetto, Nicolas. Ma il
rapporto tra i due sarà ben più complicato. Non si tratta solo di
allontanare dal palato padronale gli odiati pesci e formaggi: egli, che si
odia e si ama, vuol crearsi un vero alter ego, clona e plagia con lauti
stipendi e moine di ogni ordine e grado il debole ragazzotto, anch’egli
con carenze affettive nonostante gli amici e la ragazza da sabato sera.
Entrando in una dimensione diversa, che non esclude l’amore ma idealizza
rispetto all’omosessualità vigente, Frédéric lega a sé il suo «servo»,
iniettandogli sospetti di ogni genere, culturali, morali, gastronomici e
alzandolo socialmente. Soprattutto si rende a lui così indispensabile da
provocare alla fine vere e proprie scenate di gelosia in un crescendo
affettivo patologico omicida che, forse, è un’altra verità suggerita,
l’autopunizione che salda i conti dei complessi di colpa. Da
Un affare di gusto di Rapp, volto noto della tv francese per cui è stato reporter,
corrispondente, conduttore del tiggì, non avrete una parola definitiva,
bensì un sintomatico travaso di dubbi espressi con un montaggio sapiente
che ci fa assaporare un racconto dal gusto raffinato e complesso, dove non
si riesce sempre a distinguere i vari elementi, aprendoci una dopo l’altra
una serie di porte verso l’inferno, il buio della mente, un termine di
Chabrol, estimatore del film. Che si appoggia solido su un morbido duetto
virile d’intensità davvero non comune: da una parte il ricco e
apparentemente felice Bernard Giraudeau, dall’altra Jean-Pierre Lorit,
vittima di un gioco crudele, sensuale, affascinante che ci chiama tutti
complici e voyeurs, imbandendo la tavola di prelibatezze prontamente
digerite: l’unica che resta sullo stomaco è sempre la fatica degli
affetti.