A soli ventun anni Bertolucci firma un’opera prima indimenticabile, che parla di tematiche complesse con uno stile moderno e una struttura narrativa anticonvenzionale. Tratto da un soggetto di Pier Paolo Pasolini La comare secca si caratterizza per una poetica ambigua e contraddittoria, che esalta il senso di smarrimento dell’uomo contemporaneo. Una pellicola popolare ma lirica.
Italia 1962 – 1h 38′
Pur così giovane – ha appena 21 anni nel 1962 quando realizza il film – Bertolucci riesce ad affrancarsi da Pasolini suo indiscusso mentore. Il film infatti, pur risentendo di un certo ambiente fortemente caratterizzato, siamo pur sempre all’interno di quell’ambiente popolare che però non è sottoproletario pasoliniano, se ne discosta quanto alle profonde tensioni che lo animano. Qui, piuttosto, Bertolucci riesce perfino a rompere con la neo tradizione del suo maestro soprattutto per il senso profondo della narrazione che coinvolge i personaggi e che si rivela appassionante per lo spettatore. È uno dei tratti più interessanti del film quello degli incastri della narrazione che, prescindendo da qualsiasi velleità spettacolare, racchiude proprio nell’iterazione del racconto, visto dalle varie angolazioni dei protagonisti sospettati dell’omicidio della prostituta, il proprio senso autentico e, forse, la propria ragione d’essere. Una riflessione che, allontanandosi da qualsiasi studio sociologico sull’ambiente, bada più che altro alla tensione interna del racconto, alla variegata possibilità di lavorare dentro un suo tempo esclusivo fosse anche attraverso meccanismi già sperimentati. Bertolucci quindi, pur intervenendo su una materia che prima facie appare come stabilizzatrice di una corrente artistica che dal neorealismo porta al cinema degli anni ’60 se ne discosta per intenti e per struttura, conducendo, in realtà, un gioco ben più profondo e rischioso che comprende anche la consapevole strutturazione delle fondamenta del suo cinema. Conducono a tale conclusione non soltanto alcune scelte che attengono alla recitazione dei suoi personaggi, ma anche l’intensità cinematografica sulla quale Bertolucci insiste, svuotando il peso dei fatti e incrementando il peso teorico di quella scelta. Un cinema fortemente caratterizzato e impreziosito dal racconto (risultano i suoi film migliori quelli in cui il senso della narrazione ha un suo posto di preminenza) all’interno del quale si intrecciano i temi della libertà del pensiero che si concretizza frequentemente in una manifesta sessualità che rappresenta, costantemente, terreno di scontro e di aperta sfida alla morale corrente. La commare secca, che è la morte, può essere considerato, il grado zero del suo cinema futuro.
Tonino De Pace – sentieriselvaggi.it
Gli anni ’60 sono un periodo di svolta per il cinema italiano, si sta congedando il cinema classico per far posto a una nuova generazione autoriale, il successo di Accattone di Pasolini fa da apripista ad altri famosi esordi cinematografici. Ed è in questa finestra di tempo che si colloca Bernardo Bertolucci, a ventuno anni è l’esordiente più giovane della storia del cinema italiano. La commare secca è la sua opera prima, l’impronta pasoliniana è innegabile: Pasolini scrive il soggetto e gli consiglia di usare attori non professionisti, i due sono amici e Bertolucci è anche stato il suo assistente alla regia in Accattone.
Il film narra, attraverso dei flashback, l’indagine sull’omicidio di una prostituta nella periferia romana. La morte della donna (Vanda Rocci), trovata sulle rive del Tevere, viene narrata attraverso i racconti di vari personaggi, in una messa in scena che moltiplica i punti di vista. Il carabiniere (Gianni Bonagura) che interroga ragazzi di vita, ladruncoli e criminali trovati nei pressi del luogo dell’omicidio, è una voce off e lontana, come il potere che rappresenta. I principali indiziati sono: il Canticchia (Francesco Ruiu), il Califfo (Alfredo Leggi), il soldato Teodoro (Allen Midgette), Natalino (Renato Troiani) e due adolescenti Francolicchio (Alvaro D’Ercole) e Pipito (Romano Labate). I due ragazzi si fanno adescare da un uomo e lo derubano per poter uscire il giorno dopo con delle coetanee, a raccontarlo però è solo uno dei due, perché nella fuga uno annega nel fiume. Ed è proprio la vittima del furto a rivelarsi fondamentale per risolvere l’indagine, perché è stata testimone oculare dell’omicidio e riconosce in Natalino l’assassino.
La particolarità della pellicola sta nei diversi punti di vista, ogni personaggio ha una propria visione del mondo e questo Bertolucci lo mostra dirigendo ogni episodio con uno stile personalizzato. Un relativismo profondo, dove l’unica certezza resta la morte, a rivelarcelo è il sonetto di Gioacchino Belli che fa la sua comparsa nell’inquadratura finale: «e già la commaraccia secca de strada Giulia arza er zampino», la commare secca del titolo è proprio la morte, alfa e omega della pellicola di Bertolucci. Il giallo viene risolto, ma quello che conta davvero è lo spaccato sociale dell’epoca che il film ci mostra, in un bianco e nero perfetto e con una cifra stilistica ben definita, nonostante la forte influenza pasoliniana. I personaggi di Bernardo Bertolucci si muovono nella periferia del mondo, disperati e ai margini cercano un modo per andare avanti in una vita che non lesina colpi bassi. Le storie che sceglie di narrare sono drammatiche, divise tra poveri e potenti, angeli e demoni, vittime di un tormento interiore o in balia degli eventi, tra lotta di classe, rivoluzione, sesso e droga.
Pasolini ha dichiarato «È stato girato contro di me», non in senso dispregiativo ma perché scrivendo il soggetto si è ritratto nel personaggio dell’omossessuale adescatore, in modo simbolico e autoironico. Il film riceve un’accoglienza un po’ fredda dal pubblico e dalla critica, qualcuno consiglia a Bertolucci di tornare a fare il poeta, come il padre Attilio. Una piccola parte di critica però ne apprezza proprio gli eccessi e scorge quella scintilla di talento che avrà poi modo di splendere nelle sue opere successive.
La commare secca si caratterizza per una poetica ambigua e contraddittoria, che esalta il senso di smarrimento dell’uomo comune. La mano di Bertolucci si nota soprattutto nelle scene di ballo, che diventeranno ricorrenti nella sua filmografia, molto bella quella nel finale che porterà al riconoscimento dell’assassino. L’opera prima di Bertolucci si rivela una pellicola popolare ma lirica, un po’ Rashomon di Akira Kurosawa e un po’ tragicommedia pirandelliana, Un film imperfetto e contaminato da troppe influenze, ma che contiene il germe di autenticità di un cinema che si rivelerà più innovativo del previsto, mosso da passione civile e dal rifiuto degli eroi.
Stefania Covella – fabriqueducinema.com