Nell’ultimo anno della loro direzione il
dimissionario direttore Carlo Chatrian e la sua
segretaria alter-ego (l’olandese Katherine Rissenbeck)
hanno dato vita ad un festival anomalo e senz’altro in
tono minore rispetto alla tradizione delle gestioni
precedenti. In primo luogo stupiva l’attenzione
esagerata al cinema tedesco con ben otto film nazionali
in concorso (neanche i notoriamente sciovinisti francesi
erano mai arrivati a tanto a Cannes!); e poi con tante
scelte sciagurate o francamente incomprensibili.
A cominciare dal film d’apertura, il triste, monotono e
monocromo Small Things Like
These, dell'irlandese
Tim Mielans, incentrato sulle vicende di un onesto uomo
con alle spalle un’infanzia difficile che solo si
preoccupa del benessere della famiglia senza rendersi
conto, se non verso la fine, della tragedia che si
svolge nel vicino convento. Trattasi di una delle poi
diventate tristemente famose “Magdalene laundries”
irlandesi, dove fino a pochi anni fa ragazze incinte o
comunque considerate traviate venivano trattenute come
in un carcere, obbligate a lavorare, con il sospetto di
abusi da parte dei sacerdoti e addirittura di
infanticidi. Tema già trattato peraltro con altra forza
dall’inglese Peter Mullan in
Magdalene, Leone d’oro a Venezia
nel 2002. Nel film di Berlino invece il tema rimane sullo
sfondo (a parte le fulminee luciferine apparizioni di
Emma Stone nella parte della madre superiore del
convento che le sono valse l’Orso d’argento per la
migliore attrice non protagonista). A questo punto
sorge spontanea la domanda: perché aprire un festival
come Berlino con un film così modesto? Forse per
sfruttare il nome dell’attore protagonista, quel Cillian
Murphy (Oppenheimer) adesso sulla cresta dell’onda? O
peggio ancora perché i produttori sono niente meno che
Brad Pitt e Ben Affleck, presenti in grande spolvero sul
tappeto rosso?
Per quanto riguarda la partecipazione italiana c’era
molta attesa per Another End, opera seconda di
Piero Messina, già aiuto di Sorrentino ne
La grande
bellezza. In questo ingenuo tentativo di sci-fiction
però Il regista si ingarbuglia in una assurda distopia
sulla possibilità offerta da una ditta (non per niente
chiamata Aeterna) di trasferire per un tempo
limitato i ricordi e i sentimenti di una persona morta
nel cervello di una viva. Ovviamente, il tema del giorno
è l’intelligenza artificiale, ma il film è pesante, non
prende, non va da nessuna parte... La fantascienza,
quella vera, è un altra cosa. E fa male vedere il grande
Gael Garcia Bernal (il protagonista che vuole
trapiantare il cervello della fidanzata morta Zoe)
trascinato in questa storia senza capo né coda.
Molto meglio, a volte estremamente piacevole
Suspended Time di Olivier Assayas, uno dei
pochissimi registi veramente importanti presenti quest’anno
a Berlino.
Sempre elegante nella sua messinscena della borghesia
francese e a cui va dato atto di essere uno dei
primi ad ambientare un film nel periodo COVID e nella
conseguente segregazione (è questo il “tempo sospeso “
del titolo).
Due fratelli,di carattere opposto e che poco si
frequentavano prima sono costretti a causa del blocco a
vivere insieme e con le rispettive compagne nella
splendida dimora di campagna della loro infanzia. Il film
per un po’ è molto piacevole, ma quando i dialoghi tra i
due passano a temi letterari e filosofici tali che ci vorrebbe
una laurea per capirli, il tutto diventa antipatico e
quasi incomprensibile per un pubblico normale,
soprattutto non francese.
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Another End |
Suspended Time |
Per quanto riguarda il Palmares, l’Orso d’oro va per il
secondo anno consecutivo fermo restando il mio
preconcetto in materia) ad un documentario.
Ma mentre la scorsa edizione
Sur l’Adamant ci faceva
entrare nella toccante vicenda del battello ancorato
sulla Senna che offre rifugio e ristoro soprattutto
psicologico agli ultimi della società, quest’anno il
vincitore è Dahomey di Mati Diop,
regista di origine senegalese e già premiata a Cannes
qualche anno fa per il molto più strutturato e
significativo Atlantique. Una scelta che appare molto ideologica
e politicamente corretta, anche senza andare a pensare che abbia
avuto qualche influenza il fatto che presidente della
Giuria fosse la giovane attrice Lupita Nyiong’o di
famiglia keniota.
Lo smilzo documentario, di appena 67 minuti, segue la
restituzione al Benin (l’odierno nome dell’antico regno
del Dahomey) di 26 opere d’arte lignee già appartenute
alla corona e sottratte dall’esercito francese
nel1892.) Un'operazione voluta da Macron l’anno scorso.
Il documentario mostra tutta la fase dell'imballo e della spedizione, con
qualche divagazione fantastica (le statue ’parlano’ raccontando
la loro odissea), seguita dalle manifestazioni ufficiali
di giubilo all’arrivo nonché (e questa è la parte
migliore del film) il serrato dibattito tra gli
universitari locali sulla reale portata e significato
della restituzione. Parziale comunque, visto che in Francia sembrano
esistere ancora ben undicimila manufatti del genere.
Riassumendo, un elaborato corretto e fondamentalmente
onesto, visto che non manca un accenno sul fatto che
in verità per duecento anni la principale attività dei
sovrani di Dahomey fu la cattura degli schiavi, ma forse
più adatto ad un contenitore televisivo (tipo Focus).
Cosa
resta? Poco ma di valore: lo splendido film iraniano
My Favorite Cake, premio Fipresci,
il complesso
Sterben, unico film tedesco tra
i premiati, e il torrenziale messicano
La cocina, film
pieno di difetti ma anche di una sua straripante
vitalità.
Nel frattempo è già ufficiale la nomina a direttore
della prossima edizione dell'inglese Tricia Tuttle, per
diversi anni a capo del London Film Festival;
manifestazione importante in Inghilterra, ma che è
difficile chiamare festival, in quanto è sempre stato
piuttosto un modo per far conoscere agli abitanti
dell’isola i migliori film passati durante l’anno a Cannes, Venezia e nelle altre manifestazioni mondiali
votate al cinema di qualità.
A lei si affidano le speranze del comitato
organizzatore, anche e sopratutto per riportare a
Berlino il glamour da tappeto rosso dei bei tempi
andati.
Staremo a vedere.
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