aprile 2024

periodico di cinema, cultura e altro... ©
 

n° 90
Reg.1757 (PD 20/08/01)

 
 
 

FESTIVAL DI BERLINO                                        

 

15-25 febbraio 2024

  Nell’ultimo anno della loro direzione il dimissionario direttore Carlo Chatrian e la sua segretaria alter-ego (l’olandese Katherine Rissenbeck) hanno dato vita ad un festival anomalo e senz’altro in tono minore rispetto alla tradizione delle gestioni precedenti. In primo luogo stupiva l’attenzione esagerata al cinema tedesco con ben otto film nazionali in concorso (neanche i notoriamente sciovinisti francesi erano mai arrivati a tanto a Cannes!); e poi con tante scelte sciagurate o francamente incomprensibili.
   A cominciare dal film d’apertura, il triste, monotono e monocromo Small Things Like These, dell'irlandese Tim Mielans, incentrato sulle vicende di un onesto uomo con alle spalle un’infanzia difficile che solo si preoccupa del benessere della famiglia senza rendersi conto, se non verso la fine, della tragedia che si svolge nel vicino convento. Trattasi di una delle poi diventate tristemente famose “Magdalene laundries” irlandesi, dove fino a pochi anni fa ragazze incinte o comunque considerate traviate venivano trattenute come in un carcere, obbligate a lavorare, con il sospetto di abusi da parte dei sacerdoti e addirittura di infanticidi. Tema già trattato peraltro con altra forza dall’inglese Peter Mullan in Magdalene, Leone d’oro a Venezia nel 2002. Nel film di Berlino invece il tema rimane sullo sfondo (a parte le fulminee luciferine apparizioni di Emma Stone nella parte della madre superiore del convento che le sono valse l’Orso d’argento per la migliore attrice non protagonista). A questo punto sorge spontanea la domanda: perché aprire un festival come Berlino con un film così modesto? Forse per sfruttare il nome dell’attore protagonista, quel Cillian Murphy (Oppenheimer) adesso sulla cresta dell’onda? O peggio ancora perché i produttori sono niente meno che Brad Pitt e Ben Affleck, presenti in grande spolvero sul tappeto rosso?
Per quanto riguarda la partecipazione italiana c’era molta attesa per Another End, opera seconda di Piero Messina, già aiuto di Sorrentino ne La grande bellezza. In questo ingenuo tentativo di sci-fiction però Il regista si ingarbuglia in una assurda distopia sulla possibilità offerta da una ditta (non per niente chiamata Aeterna) di trasferire per un tempo limitato i ricordi e i sentimenti di una persona morta nel cervello di una viva. Ovviamente, il tema del giorno è l’intelligenza artificiale, ma il film è pesante, non prende, non va da nessuna parte... La fantascienza, quella vera, è un altra cosa. E fa male vedere il grande Gael Garcia Bernal (il protagonista che vuole trapiantare il cervello della fidanzata morta Zoe) trascinato in questa storia senza capo né coda.
Molto meglio, a volte estremamente piacevole Suspended Time di Olivier Assayas, uno dei pochissimi registi veramente importanti presenti quest’anno a Berlino. Sempre elegante nella sua messinscena della borghesia francese  e a cui va dato atto di essere uno dei primi ad ambientare un film nel periodo COVID e nella conseguente segregazione (è questo il “tempo sospeso “ del titolo). Due fratelli,di carattere opposto e che poco si frequentavano prima sono costretti a causa del blocco a vivere insieme e con le rispettive compagne nella splendida dimora di campagna della loro infanzia. Il film per un po’ è molto piacevole, ma quando i dialoghi tra i due passano a temi letterari e filosofici tali che ci vorrebbe una laurea per capirli, il tutto diventa antipatico e quasi incomprensibile per un pubblico normale, soprattutto non francese.

Another End

Suspended Time

Per quanto riguarda il Palmares, l’Orso d’oro va per il secondo anno consecutivo fermo restando il mio preconcetto in materia) ad un documentario. Ma mentre la scorsa edizione Sur l’Adamant ci faceva entrare nella toccante vicenda del battello ancorato sulla Senna che offre rifugio e ristoro soprattutto psicologico agli ultimi della società, quest’anno il vincitore è Dahomey di Mati Diop, regista di origine senegalese e già premiata a Cannes qualche anno fa per il molto più strutturato e significativo Atlantique. Una scelta che appare molto ideologica e politicamente corretta, anche senza andare a pensare che abbia avuto qualche influenza il fatto che presidente della Giuria fosse la giovane attrice Lupita Nyiong’o di famiglia keniota. Lo smilzo documentario, di appena 67 minuti, segue la restituzione al Benin (l’odierno nome dell’antico regno del Dahomey) di 26 opere d’arte lignee già appartenute alla corona e sottratte dall’esercito francese nel1892.) Un'operazione voluta da Macron l’anno scorso. Il documentario mostra tutta la fase dell'imballo e della spedizione, con qualche divagazione fantastica (le statue ’parlano’ raccontando la loro odissea), seguita dalle manifestazioni ufficiali di giubilo all’arrivo nonché (e questa è la parte migliore del film) il serrato dibattito tra gli universitari locali sulla reale portata e significato della restituzione. Parziale comunque, visto che in Francia sembrano esistere ancora ben undicimila manufatti del genere. Riassumendo, un elaborato corretto e fondamentalmente onesto, visto che non manca un accenno sul fatto che in verità per duecento anni la principale attività dei sovrani di Dahomey fu la cattura degli schiavi, ma forse più adatto ad un contenitore televisivo (tipo Focus).

Cosa resta? Poco ma di valore: lo splendido film iraniano My Favorite Cake, premio Fipresci, il complesso Sterben, unico film tedesco tra i premiati, e il torrenziale messicano La cocina, film pieno di difetti ma anche di una sua straripante vitalità.
Nel frattempo è già ufficiale la nomina a direttore della prossima edizione dell'inglese Tricia Tuttle, per diversi anni a capo del London Film Festival; manifestazione importante in Inghilterra, ma che è difficile chiamare festival, in quanto è sempre stato piuttosto un modo per far conoscere agli abitanti dell’isola i migliori film passati durante l’anno a Cannes, Venezia e nelle altre manifestazioni mondiali votate al cinema di qualità. A lei si affidano le speranze del comitato organizzatore, anche e sopratutto per riportare a Berlino il glamour da tappeto rosso dei bei tempi andati. Staremo a vedere.

Giovanni Martini

 
 

in rete dal 21 aprile 2024

 
 

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