Al suo quarto tentativo, dopo due
edizioni funestate dalla pandemia, il direttore Carlo Chatrian ha presentato una rassegna varia e articolata,
con la giuria presieduta dall’attrice americana Christin
Stewart. Certo siamo lontani da certi momenti alti del
recente passato, e soprattutto da quel clima che ne aveva
fatto, per tutta la gestione Kossowitz, il festival più
impegnato, politico, di sinistra tra quelli maggiori. E
d’altra parte, solo a leggerne il programma, si notava
l’assenza di tutti i grandi nomi (ad eccezione forse dei
tedeschi). Evidente peraltro l’intento di adeguarsi alle
ultime tendenze; almeno la metà dei film ha come regista
una donna e una spiccata attenzione ad argomenti al centro
del dibattito odierno, come la questione del “gender”. Tra
le incongruenze: il film di apertura, il mediocre
She came to me di Rebecca Miller, non è
in concorso (e allora si poteva anche non metterlo!). E
anche il primo in gara, BlackBerry
di Matthew Johnson, non è che un filmone commerciale sulla
incredibile vicenda dell'ascesa e caduta dell‘omonimo
cellulare canadese, il primo capace di ricevere e spedire
una mail, progenitore dell'attuale smartphone. Appesantito
però, in maniera quasi caricaturale, dalla
contrapposizione tra l’universo degli smanettoni
californiani che lo inventano e l’altrettanto esagerato
gelido ambiente del business americano che lo porta all’
effimero successo. Ma veniamo al Palmares:
Orso d'oro per il miglior film al reportage
Sur l’Adamant
di Nicolas Philibert. Il titolo si riferisce ad un
battello ancorato sulla Senna che serve di prima
accoglienza e centro di cura e socializzazione per persone
sofferenti di vari problemi psichici. Autore di grande
esperienza e apprezzato dalla critica, soggetto
ineccepibile, un'opera che va ad affiancare ad altri (più
o meno memorabili) documentari, da Grande raccordo
anulare fino a
All the Beauty and the Bloodshed,
entrambi premiati col Leone d’oro).
Inspiegabile invece, nostro avviso, l'Orso
d’argento per la migliore sceneggiatura
a Music
della regista tedesca molto cult Angela Schanelec. Un
riconoscimento davvero spiazzante per un film
inguardabile, costituito da una serie di inquadrature
fisse e quasi senza relazione tra di loro, di cui tutti
hanno capito poco o niente. Ambientato in una Grecia
arcaica ma ai giorni nostri (si assiste ad una partita dei
mondiali 2006) sembra portare un riferimento al mito di
Edipo. Cinema austero, cerebrale, per iniziati, o forse un
altro vicolo cieco per la sopravvivenza del cinema, uguale
e opposto a quello dove rischia dì condurci
Everything everywhere all at once,
il trionfatore agli Oscar di quest'anno?
Più condivisibili l'Orso d’argento-Gran
premio della giuria a
Roter Himmel di Christian Petzold, il premio
per la migliore regia al Philip Garrel di
Le grand chariot
e l’Orso d’argento per la
migliore interpretazione (in generale, non
esiste più femminile e maschile) alla deliziosa ragazzina
(nove anni) Sofia Otero, protagonista del catalano
20000 Species of
Beees, un film che avrebbe
meritato maggiore attenzione da parte della giuria.
Così come i trascurati Past lives-Vite
passate, delicata opera prima
della coreano-canadese Celine Song sulla possibilità di
ritrovarsi a distanza di anni e di continenti (via
Facebook of course) e il messicano
Totem
di Lila Aviles, commovente ritratto di famiglia con al
centro il dramma di un giovane uomo malato.
Meritevoli di attenzione infine anche i
film italiani,
Disco Boy
di Stefano Abbruzzese,
Laggiù qualcuno mi ama
e un piccolo gioiello,
Le mura di Bergamo
di Stefano Savona, presentato nella sezione Encounters.
Giovanni
Martini
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