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Anche stavolta è il western
a fare da padrone, ma anche il cinema muto si è ormai trovato una
sua periodicità e il network non manca di riservare
piacevoli sorprese. In più questo numero ospita un breve
intervento di cronaca & architettura, un amaro sguardo
prospettico. |
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PILLOLE WESTERN
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la
trilogia della Cavalleria |
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Con
la trilogia della Cavalleria vengono individuati
tre film di
John Ford,
Il massacro di Fort
Apache,
I cavalieri del Nord
Ovest
e Rio Bravo,
datati rispettivamente 1948, 1949, 1950. L'attenzione del
regista è rivolta all''istituzione militare, nodo cruciale
della storia americana, nello specifico di quella del West (e del
western).
Nel
primo rivolge uno sguardo amaro e critico alla follia bellica
del colonnello Thursday,
nel
secondo descrive con nostalgica partecipazione l'ora del
pensionamento del capitano Brittles di stanza a Fort Starke,
nel
terzo entra nella dimensione familiare del colonnello Yorke
che, nel campo ai confini del Messico, reincontra il figlio
arruolatosi come recluta e la moglie che non vedeva da 15
anni.
Per Ford le tre opere sono complementari, tre tasselli di uno
stesso mosaico, tre occasioni per mettere in luce come il
Forte sia un sistema sociale stabile, una comunità solidale,
un microcosmo dove i soldati forgiano le loro personalità di
uomini e di "eroi" scoprendo valori quali l'amicizia, il
rispetto e l'onore.
Fort Apache,
She Wore a Yellow Ribbon e Rio Grande (questi i
titoli originali) non sono narrativamente un tutt'uno (anche
se le date d'ambientazione sono susseguenti: 1864, 1876, 1879)
e non hanno l'un l'altro un preciso collegamento, ma la regia
suggerisce analogie e rimandi: i Forti, che sono in ogni
racconto avamposti a ridosso dei territori indiani - la
presenza attoriale di John Wayne che nel suo personaggio sa
invecchiare in saggezza e sentimento - il cognome del suo
protagonista che dal primo al terzo film passa da York a Yorke e che in entrambi trova come spalla il soldato Tyree
(Ben Johnson) - la figura del sergente "alcolico",
interpretato da Victor McLaghen, che si ritrova in ognuno dei
tre film (e che negli ultimi due mantiene anche lo stesso
nome, Quincannon).
E poi, ovviamente la continuità musicale (da
She Wore a Yellow Ribbon
a
Dixie) e il fascino comune dei paesaggi della Monument
Valley, fotografati in bianco e nero nel primo e terzo
"episodio", a colori nel secondo.
Ezio Leoni
NOTE
Le tre pellicole sono tutte tratte dai racconti di
James Warner Bellan.
Una
discontinuità "fastidiosa" si ritrova nel doppiaggio
italiano di John Wayne: solo nell'ultimo di questi
tre film il tenente colonnello Kirby Yorke ha la voce di
Emilio Cigoli (già presente
in
Ombre rosse
e
Il
fiume rosso e che ritroveremo in
Sentieri selvaggi),
nel primo è il turno di Mario Pisu
che, per il capitano York, ha comunque un timbro simile,
mentre l'abbinamento capitano Brittles-Sandro
Ruffini appare decisamente "stonato".
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ALTRE VISIONI |
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visioni online |
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Vincenzo
Park Jae-bum e Kim
Hee-wonder #
Corea del Sud 2021
(Netflix
- 20 puntate)
trailer |
“Adesso che
hanno visto Parasite tutti pensano di conoscere la Corea” è la
battuta pronunciata da un personaggio del k-drama
coreano
Vincenzo,
da maggio su Netflix. L'ironia sottintende che non è tanto al
cinema “d'autore”, quello più conosciuto all'estero, che gli
sceneggiatori fanno riferimento, quanto alla vasta offerta di
film popolari, di genere, che la Corea produce e che in Italia
sono ben noti ai frequentatori di festival come il
FarEast
di Udine.
La serie gode di grande successo in patria, al punto che alle
16 puntate previste, a grande richiesta del pubblico, ne sono
state aggiunte altre 4, per arrivare a 20 di circa un'ora
ciascuna. Interpretata dal “Di Caprio” coreano, Song Joong-ki,
racconta la storia di un giovane avvocato italo-coreano,
adottato da piccolo da un mafioso italiano, che, dopo la morte
del padre, torna al suo paese di origine, per recuperare un
tesoro in lingotti d'oro a suo tempo nascosto sotto le
fondamenta di un edificio a Seul.
La notorietà di Vincenzo in Italia è dovuta prevalentemente al
fatto che le origini italiche del protagonista danno adito a
tutta una serie di stereotipi spesso esilaranti sul nostro
paese visto con gli occhi dei Coreani, a partire dalle
difficoltà dei vari personaggi a pronunciare il nome stesso
del protagonista, Vincenzo Cassano (Binsenjo), declinato in
tutte le varianti possibili, per concentrarsi sui vari vezzi
attribuiti al personaggio: l'eleganza nel vestire, il gusto
per la buona cucina, la passione per il calcio (al piccione
frequentatore abituale del suo davanzale verrà dato il nome
Inzaghi), il ricorrere a metodi tipicamente mafiosi, il
parlare in Italiano soprattutto nei momenti di rabbia (Korea
di mmmerda!) (va vista ovviamente in lingua originale).
Questo aspetto per noi Italiani costituisce sicuramente un
valore aggiunto per la godibilità della serie, ma sarebbe
limitativo concentrarsi unicamente su esso. Gli autori infatti
si muovono agilmente tra i vari generi che caratterizzano il
cinema coreano pop, dall'azione al melò, dal sentimentale al
thriller, dal drammatico al demenziale, alternandoli in una
costruzione narrativa perfettamente controllata, in cui dalla
storia principale si dirama tutta una serie di sottotrame, che
permettono di tenere sempre desta l'attenzione dello
spettatore: il rapporto ambivalente con la giovane rampante
avvocatessa (una bravissima Jeon Yeo-been) e con suo padre,
difensore degli ultimi, il ritrovamento della madre naturale,
la mafia locale, la corruzione dei poteri, la speculazione
edilizia, l'amicizia e la complicità che un po' alla volta si
vengono a creare con gli abitanti del palazzo che dovrebbe
essere abbattuto.
La perfetta costruzione drammaturgica si basa anche su una
accurata caratterizzazione dei personaggi, anche minori, con i
quali Vincenzo entra in contatto, in particolare i variegati
abitanti dell'edificio, sotto cui è nascosto l'oro: il cuoco
di un improbabile ristorante italiano, la giovane insegnante
di pianoforte, che sembra uscita da uno dei tanti film horror
coreani (e infatti la troviamo che si esercita nella camminata
da zombie per il casting de
Il treno per Busan 2), il sarto
con un passato di gang, il fanatico di arti marziali, i due
bonzi...
A ciò si aggiunga una notevole dose di ironia, anche
autoreferenziale, nei riferimenti agli stereotipi sul cinema e
sulle serie coreane e su come si suppone vengano recepite
all'estero. Una serie dunque godibilissima e coinvolgente, la
cui lunghezza non si fa certo sentire e che, anzi, alla fine
delle più di 20 ore di visione, lascia un certo rimpianto.
Cristina Menegolli
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PERLE SILENZIOSE
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alla riscoperta del CINEMA MUTO |
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Proseguiamo il nostro viaggio nel cinema muto
con altri due film del 1920. Se la scorsa volta l’horror e il
melodramma, entrambi venati di più o meno ricercate
introspezioni psicanalitiche, avevano guidato la nostra
esplorazione dei generi, vogliamo dedicare alla commedia
questo nuovo appuntamento. Una commedia, sia detto dal
principio, non esente da sfaccettature tragiche, da punte di
dramma che se da un lato – il lato del
Sumurun di Lubitsch – entrano direttamente nel
canovaccio dell’opera e ne determinano la natura ibrida di
tragicommedia sul modello shakespeariano, dall’altro – il lato
de Gli zaffiri di Kim –
lasciano la pellicola allegra e immacolata per riverberarsi,
invece, sulle vicissitudini di chi quel film lo ha
interpretato.
Sumurun
>> |
Gli zaffiri di Kim
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Matteo Pernini |
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SGUARDI PROSPETTICI
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la triste fine dell'ex-stabilimento Diemme |
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In un cassetto
custodisco ancora lo scritto stilato con la sua vecchia
Olivetti Lettera 32 da mio zio, l'architetto Renzo Menegazzo, dove -
durante la mia frequentazione dello I.U.A.V. tra la
fine degli anni ‘70 e l’inizio degli ‘80 - mi suggeriva quali
“matite e quali mine” era preferibile utilizzare per
realizzare un disegno piuttosto che un altro.
Oggi zio Renzo cosa potrebbe suggerire di fronte allo sfregio,
alla vera e propria violenza che ancora una volta la "sua"
Padova subisce: la demolizione del "suo" stabilimento Diemme
di via Caprera.
Siamo infatti dinnanzi ad “un condannato a
morte” senza alcuna possibilità di salvezza, ma queste poche
righe assumono per me l’accezione di un atto
moralmente dovuto, in fondo un mio “atto d’amore” nei
confronti dello zio
Renzo, dell’Architettura, della Cultura e del Bello; un atto
d’amore nei confronti delle scelte compiute da “molti”
nell’intraprendere studi volti al coraggio, alla
sperimentazione, alla ricerca.
Erano anni, quelli di Renzo Menegazzo, in cui le “occasioni”
erano permeate dal sapere e dal rigore, anni nei quali tali
aspetti potevano concretizzarsi nella “forma”, nella
“composizione” o nell’uso dei materiali; anni in cui una
committenza illuminata, anch’essa coraggiosa e audace, offriva
opportunità e possibilità.
Già di molte architetture padovane degli anni ‘50/‘60 non
rimane traccia, ora un’altra se ne aggiungerà! Che dire?
Certamente verrebbero spontanee molte considerazioni, ma una
le sovrasta tutte: perché, con “un colpo di ruspa”,
cancellare, senza rispetto, senza ritegno, senza vergogna la
memoria storica? Perché? Ovvia la risposta!: il mondo è
cambiato! Ed è questo il cambiamento? Credo fermamente nella
possibilità di realizzare nuove architetture di qualità
partendo da realtà capaci di trasudare storia (rimanendo
all’interno di quanto progettato e realizzato da mio zio,
penso all’ampliamento dell’Hotel Mediterraneo di Jesolo
Pineta) ma, evidentemente, tale modus operandi risulta
più “faticoso”, impegnativo e poco... conveniente! Quindi
meglio radere al suolo, meglio... “bombardare”! Risultato? Una
netta umiliazione dell’intelligenza e del sapere.
Con la consolazione che mio zio Renzo è troppo “lontano” per
vedere tutto questo, vorrei qui condividere la speranza di un
futuro “colpo di coda” della Cultura, del Bello e
dell’Armonia...
Massimo Magagnin
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