Al di là
di ogni più̀ rosea previsione, a pochi mesi dalla chiusura
totale di ogni attività̀, la
Mostra del cinema di Venezia n° 77
si è svolta. Ed è stata un successo, bisogna
riconoscerlo. Che tipo di successo però, meriterebbe di
essere analizzato con un minimo di attenzione, soprattutto
finito il clamore che l’evento in se ha suscitato.
Rimangono com’è ovvio i premi e
le polemiche ad essi correlate; rimangono gli
abiti, il glamour, i volti noti, i lustrini e le
apparizioni di fantasmi che qualcuno ritiene in qualche
modo influenti a qualcosa. Rimane tutto ciò̀ che
l’industria del cinema si porta appresso, ciò̀ che
sostanzialmente le permette di guadagnare e sopravvivere.
Infine rimane anche l’opera, il film, o un autore. E il
fatidico abbondare di giudizi e
di gusti, spesso accalorati e tranchant, con la
malcelata illusione da parte di chi li produce che essi
arrivino addirittura a decretare la fortuna di un titolo o
di un altro, ammesso che qualcuno al di fuori del piccolo
e autosufficiente contesto di un festival, potrà̀ mai
vedere questi film, ancora di più ora che i distributori
sono terrorizzati dall’andamento disastroso del pubblico
in sala. Quindi, per fortuna che ci sono le
piattaforme di streaming,
che assicurano forse la possibilità̀ di godere di
un’infinità di titoli, anche se non sul grande schermo
ovviamente. Ed è a questo punto che si finisce per
interrogarsi anche sul senso di un festival: il suo ruolo
culturale, il senso delle scelte delle visioni che
propone, la sua funzione politica, il suo investimento
come manifestazione di costume o come un’esclusiva per
appassionati cinefili o ritrovo per i cosiddetti addetti
ai lavori.
L’organizzazione, di fronte agli occhi di tutti, è stata
irreprensibile, all’altezza di una contingenza
preoccupante, oltre le misere aspettative proprie di un
temperamento indolente della burocrazia del bel paese.
Questo evento ha così certificato come, volendo, possa
esistere la fruizione in una sala,
in sicurezza e comodità̀, e, ancora di più̀, la necessità
dello spazio e del contesto della sala stessa per poter
esperire il cinema e riconoscerlo davvero per quella forza
che ancora gli appartiene. La funzione di uno spazio buio
che avvolge lo spettatore con in più̀ lo spazio attorno al
proprio posto a sedere, prenotato, e dunque assicurato,
che sgretola l’ansia di code stremanti. Una rivoluzione.
Forse davvero per dei grandi
cambiamenti sono necessarie delle catastrofi.
Tra i vari cambiamenti la Mostra ha dovuto anche diminuire
il numero di film presentati: una vera fortuna, vista
l’abbondanza infeconda a cui si era giunti nelle edizioni
passate. La selezione ufficiale del
Concorso
non rimarraà di certo impressa nella memoria per lungo
tempo e il vincitore del Leone
d’Oro
Nomadland
di Chloé Zhao (USA) rappresenta proprio il coronamento di
un cinema semplificato, progettato per piacere ed
emozionare e privo di qualunque necessità di indagine
oltre la narrazione e l’interpretazione ad effetto. A
bilanciare questo esito pronosticato già al momento
dell’annuncio del programma, si sono inseriti alcuni nomi
meno scontati, come l’azero Hilal Baydarov (Tra
una morte e l’altra), i polacchi Małgorzata
Szumowska e Michał Englert (Non ci
sarà mai più la neve), l’indiano Chaitanya
Tamhane (The Disciple)
che assieme ai capisaldi autoriali di Andrei Konchalovsky
(Cari compagni!),
Kiyoshi Kurosawa (Moglie di una
spia) e Michel Franco (Nuevo
orden) sono riusciti a mostrare opere non per
forza impeccabili ma almeno capaci di instillare una forma
di dubbio, un interrogativo, un movimento dello sguardo
oltre la bidimensionalità̀ stringente dello schermo;
attingendo al passato, ragionando sulla storia, sfidando
la violenza dell’uomo, invocando la morte.
In questo scenario di incertezze la
sezione Orizzonti
è invece tornata ad avere un’identità̀, una voce e dei
contenuti per i quali è valso la pena di soffermarsi: uno
spazio di ricerca e non solo una collezione di scarti più̀
o meno nobili, con una visione globale rivolta anche e
soprattutto verso luoghi meno conosciuti; una funzione
questa che una Mostra del cinema non dovrebbe mai perdere.
E così, fosse anche solo per la purezza della cinefilia
trasmessa dal protagonista di
Zheltaya koshka (Gatto
giallo) del kazako Adilkhan Yerzhanov, o la
tensione misteriosa della giungla maya, viva e desiderante
di Selva trágica di
Yulene Olaizola, o la ricostruzione dell’inchiesta
giornalistica realmente avvenuta a Pechino nel 2003 e che,
con un solo articolo, ha cambiato il destino di cento
milioni di cinesi affetti da epatite B, raccontata nel
film di Jing Wang (e prodotto da Jia Zhangke)
The Best Yet to Come,
ci si potrebbe consolare dal profluvio di titoli italiani
sparsi in ogni dove, presenti in qualunque sezione, in
tutte le loro forme più prevedibili e ricorrenti.
Una
mostra del cinema italiano che non aggiunge niente
di nuovo a temi e schemi di messa in scena ripetuti e
irranciditi, ma sempre capaci di catturare un folto gruppo
di spettatori volenterosi di alzarsi dai propri divani di
casa. Con le dovute eccezioni, com’è naturale che sia. In
particolare per Notturno
di Gianfranco Rosi, documentario in grado di produrre
furenti reazioni e per questo meritevole di considerazioni
più̀ approfondite e critiche. Rosi forse cerca di
sporgersi oltre i limiti e le limitazioni del suo sguardo
clinico ed elegante, cercando, in fin dei conti, di
raccontare vanamente un mondo dai confini troppo sfumati
ma pizzicando uno sforzo da parte dell’osservatore di
verifica su quanto gli si sta mostrando, e verso il quale
è possibile operare una meditazione sullo statuto delle
immagini e la loro costruzione, morale, civile, etica ed
estetica.
Per
fortuna però che c’è Lav Diaz, che con
Lahi, Hayop
(Genus Pan)
pone un sigillo a qualunque diatriba e ci indica la via da
seguire: “nonostante la specie umana sia la più
sviluppata, la maggior parte di noi reca ancora in sé
l’atteggiamento dello scimpanzè́, il genere Pan, degli
ominidi, la grande famiglia di primati. Dunque, per nostra
stessa natura, siamo violenti, aggressivi, ossessivi,
trasgressivi, invidiosi, territoriali, narcisisti ed
egocentrici, esattamente come il nostro cugino, il genere
Pan. Tuttavia c’è speranza. Gli studi sostengono che il
cervello umano si stia ancora sviluppando e, dopo che
questo processo sarà̀ definitivamente compiuto, l’uomo
sarà̀ completo: una specie pienamente realizzata,
altruista, pura e vera”. E se c’è una speranza per il
cinema, la composizione perfetta dei fotogrammi in bianco
e nero di Lav Diaz né è la dimostrazione.
Alessandro Tognolo |