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PILLOLE WESTERN
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visioni da lockdown |
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È
indiscutibile che l‘isolamento da Covid-19 ha aperto nuove
frontiere culturali: libri accantonati che aspettavano il loro
spazio, film da scoprire o da rivedere in alternativa
all’affollamento streaming delle serie tv... Le coincidenze
hanno voluto che il romanzo in lista d’attesa (Lonsome Dove
di Larry McMurtry)
fosse una emozionante avventura western e che in televisione
abbia circolato una ricca proposta di
western e northern più o
meno famosi a cui non potevamo che riappassionarci.
Eccone almeno tre, indimenticabili.
Ezio Leoni |
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CINEMA E PANDEMIA
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quale futuro per le sale cinematografiche? |
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Pensiero
e azione. Alla domanda sul futuro del cinema in sala arrivano
in questi giorni due risposte, una di riflessione propositiva
(Lettera aperta per il sostegno all’esercizio
cinematografico indipendente italiano), firmata da
esercenti, distributori, autori, critici, che fa capo al sito
al
sito
lasci.cloud,
l'altra che consiste in un progetto operativo (hashtag
#IoRestoInSala) a cui stanno aderendo sempre più
sale (si è partiti da una cinquantina) e che prevede uno
spazio online in cui lo spettatore potrà̀ accedere come se
andasse nel suo cinema di riferimento. Il modello che si vuole
portare sulla piattaforma è quello della sala, permettendo ai
singoli cinema disseminati sul territorio italiano (e solo ed
esclusivamente ai cinema) di vendere un biglietto per la
visione di un film da casa. Ogni cinema simulerà la visione
di un film in sala, con posti assegnati e streaming a orari
prestabiliti. È possibile vedere gli altri spettatori in
sala, fare amicizia, conversare in chat con il vicino di
poltrona e commentare il film.
Nella lettera si chiede di
potersi confrontare con indicazioni chiare, efficaci,
operative così da potersi assumere coscienti responsabilità
verificando l’effettiva sostenibilità delle normative tese a
tutelare la salute pubblica. Un sguardo particolare è
rivolto alla miriade di sale di quartiere e di paese, in
particolare quelle indipendenti, che hanno un ruolo chiave
nella pluralità e varietà della proposta e nel legame col
territorio, svolgendo un prezioso lavoro culturale e sociale,
ma che più di altri soggetti sono esposte a dei seri rischi
rispetto alla possibilità di riaprire e di farlo in modo
sostenibile. Il tutto nella fiducia in un ‘dopo’ in cui ci
sarà fame di cinema, fame di cultura condivisa, di presenza
fisica e di scambio reale, di riunirsi e ritrovarsi senza
paura in una sala cinematografica dove gli esercenti
vogliono trovarsi pronti e messi nelle condizioni di
riprendere quell'attività che a loro riesce meglio, vendere
sogni.
Il progetto online non è
antitetico. È il presupposto per un periodo di surplace,
in cui le ruote delle visione temporeggiano sulle piste dello
streaming prima di spremere la loro corsa sulle strade degli
schermi cinematografici. L'obiettivo, per le sale, è quello di
continuare a fidelizzare il proprio pubblico: ogni singolo
cinema comunicherà̀ - sui rispettivi siti, newsletter, social
- ai propri spettatori la possibilità di acquistare biglietti
per le sale virtuali direttamente sul proprio sito. Le Sale
rispecchieranno le capienze delle sale fisiche del cinema di
riferimento. Tutto questo può̀ consentire allo spettatore di
ritrovare quel senso di identità̀ e comunità che
caratterizzano il pubblico delle sale cinematografiche di
qualità̀, in un momento di blocco delle sale fisiche.
La
lettera
ha aperto la sua raccolta firme il 12 maggio, per
#IoRestoInSala la presentazione del progetto è
fissata per 18 maggio, dopo di che saranno comunicati i primi
15 film resi disponibili per la programmazione e e questa sarà
definita, sala per sala, tra 21 e il 25.
Che la sala sia con voi ! |
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ALTRE VISIONI
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visioni da lockdown |
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Se
abbandonarsi al flusso ininterrotto della visione in
binge whatching delle svariate serie offerte dalle
piattaforme in streaming ha aiutato a trascorrere le
molte ore di inattività a cui l'emergenza sanitaria ci
ha costretto, è anche vero che ogni tanto si fa sentire
l'esigenza di una pausa, che può essere offerta da una
modalità di “visione” diversa. Due suggerimenti in
questo senso potrebbero essere: il magnifico corto di
David Lynch What Did Jack Do? e la serie Tales
From the Loop. |
What Did Jack Do?
- David Lynch
# USA 2017
Netflix (17')
trailer |
È
un'occasione imperdibile quella che Netflix offre agli
spettatori in occasione dei 74 anni
di
David Lynch,
mettendo in rete questo lavoro del 2016, prodotto dalla
Fondation Cartier di Parigi, mostrato prima d'ora solo
in rarissime occasioni legate a esibizioni ed eventi
curati dall'autore stesso.
Il
dialogo-interrogatorio tra il detective D. Lynch e la
scimmia antropomorfa Jack Cruz, con il suo bianco e nero
sfumato, l'immancabile tazzina di caffè, le nuvole di
fumo, il linguaggio criptato, l'improvvisa performance
cantata, ci trascina immediatamente all'interno del
mondo visionario dell'artista. E solo un grande artista
come Lynch è in grado di condensare in pochi minuti
quella che è la sua concezione di cinema, cinema come
costruzione di mondi.
Da un lato il film si può leggere come un omaggio alla
magia del linguaggio cinematografico e alle sue
potenzialità: dalla dinamica tra “campo” e “fuori campo”
viene creato uno “spazio filmico” che è solo nella mente
dello spettatore, dall'altro la formula del
“campo-controcampo”, con la quale viene rappresentato
l'intero dialogo, se apparentemente si rifà agli stilemi
classici del
noir, in realtà
pone l'autore di fronte a se stesso, al suo cinema, a
cui molti sono i rimandi e alla sua poetica. La scimmia
Jack, sospettata di omicidio per amore di una gallina,
che parla attraverso la bocca e la voce di Lynch stesso,
si pone sin da subito come l'elemento perturbante, il
tassello fuori posto capace di stravolgere la concezione
dell'ordinario dello spettatore e di aprire le porte
all'ineffabile di cui sono fatti i suoi film.
Qualsiasi tentativo di analisi o di interpretazione
sarebbe, come per tutti i suoi lavori, riduttivo
rispetto alle potenzialità evocative che l'opera offre.
“Il suo cinema è un 'esperienza simile a quella che
si vive al risveglio, quando il mondo del sogno sfuma
lentamente nella consapevolezza. È un sogno vigile, un
viaggio attraverso l'ignoto, l'oscuro, il bene e il male
che forgiano ognuno di noi. Per questo Lynch è così
difficile da spiegare e così restio a spiegarsi, perché
la parola non può attingere al nucleo dell'incubo, può
solo lambirlo”. Così lo descrive Chris Rodley nella
prefazione al bellissimo libro intervista, intitolato
appunto Io vedo me stesso. |
Tales From The Loop
-
serie ideata da Nathaniel Halpern
Amazon Prime Video (8 episodi)
trailer |
Merita senz'altro un'attenzione
particolare la
nuova serie ideata da Nathaniel Halpern (già
sceneggiatore di
The Killing),
composta di otto episodi, ispirati alle tavole dell'
illustratore svedese Simon Stalenhag. Volendola collocare
all'interno del genere “fantascientifico” per i temi
trattati, appare evidente, sin dal primo episodio, la
volontà degli autori di distanziarsi dalle tipologie
classiche del genere, privilegiando un ritmo lento,
fatto di silenzio e contemplazione, che sembra una
provocazione nei confronti del pubblico del binge
watching, abituato ai ritmi frenetici delle
labirintiche trame delle serie, tipo
Dark o
Stranger Things.
Che The Loop abbia delle pretese di autorialità è
dimostrato anche dal fatto che la colonna sonora sia
stata affidata a Philip Glass e che l'ultimo episodio
porti la firma di Jodie Foster. Anche il cast si avvale
di attori noti come Rebecca Hall, Paul Schneider,
Johnathan Pryce...
Gli otto episodi sono racconti compiuti a sé stanti, ma
nello stesso tempo collegati tra loro dalla presenza
degli stessi personaggi e dall'unità di luogo. Racconta
la storia di una cittadina di provincia, nel cui
sottosuolo, negli anni 80, è stato costruito un centro
di ricerca, il Loop, in cui si indaga su “come
l'impossibile possa diventare possibile” e con il
quale tutti gli abitanti sembrano avere qualche
collegamento.
Il paesaggio circostante e, si può dire,
immanente è allo stesso tempo idilliaco e inquietante,
fatto di una natura incontaminata, in cui si inseriscono
o appaiono inaspettatamente misteriosi elementi di
fantascienza: strane torri, robot, trattori che
viaggiano nel tempo... In questa cornice si muovono
personaggi che, di volta in volta diventano centrali o
restano coinvolti nelle vicende vissute da altri. Al
fascino dell'ambientazione contribuisce decisamente la
colonna sonora ipnotica e straniante di Glass.
Il tema che accomuna tutti i racconti è quello del
tempo, non inteso in senso lineare, ma ciclico, il loop
appunto, come dimostrano il primo e l'ultimo episodio
collegati tra loro, che racchiudono altre storie, in cui
la linearità temporale viene sconvolta da eventi, che
sfuggono a spiegazioni e semmai seminano dubbi.
L'originalità della serie consiste proprio in questo
contrasto tra le distopie temporali e l'ambientazione
rurale con casette modeste con arredamenti obsoleti,
interni sempre poco illuminati, dove irrompono oggetti
di archeo-fantascienza che ci proiettano in un futuro,
che appare però più simile al passato. Le inquadrature
fisse, i dialoghi al rallentatore, i dubbi suggeriti in
maniera subliminale rimandano direttamente alle
illustrazioni di Stalenhag senza tentare soluzioni
narrative differenti dall'ispirato impressionismo
pittorico dell'autore. Sono quadri di un'esposizione,
che a volte richiamano anche la fissità di certe
inquadrature di Roy Andersson.
The Loop è una serie che da un
lato pone lo spettatore di fronte allo sconosciuto
potenziale dell'universo, dall'altro lo spinge ad
esplorare le profondità esistenziali dell'essere umano,
senza mai dare o suggerire delle risposte, ma insinuando
un senso di smarrimento, di straniamento in un realismo
distopico alienante e coinvolgendolo in un loop,
che per certi versi si avvicina a quanto molti di noi
stanno vivendo in questo periodo di isolamento.
Cristina Menegolli |
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FESTIVAL DI
BERLINO
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20 - 29 febbraio 2020 |
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In
una Berlino uggiosa ma non fredda, e soprattutto assolutamente
ignara (o noncurante) dello tsunami Coronavirus che stava per
abbattersi sull’Europa, si è svolto, dal 20 al 29 febbraio
la70esima edizione del Festival cinematografico, il primo
sotto la nuova direzione dell’italiano Carlo Chatrian. Sale e
mercato affollatissimi, file corpo a corpo, nessuna
precauzione o distanziamento o lavaggio delle mani, rarissime
la mascherine.
Unico indizio della catastrofe imminente, i bisbigli, gli
scambi preoccupati di notizie e informazioni sottovoce tra gli
italiani, soprattutto del nord.
Eppure, a scriverne dopo qualche settimana, sorge imperiosa e
angosciosa la domanda: il popolo dei cinefili e degli addetti
ai lavori dovrà ricordare questa edizione di Berlino 2020 come
l’ultima di un’era felice, di una età dell’oro che potrebbe
non tornare più? Alla ripresa, quando verrà, tra un anno o
forse più, esisteranno ancora le sale, soprattutto quelle
d’essai? Sopravviverà il già scarso (e attempato) pubblico ad
un così lungo dominio di Netflix, Amazon Prime,
Disney e scaricamenti vari?
Lasciando da parte folcloristiche idee, come la rinascita del
drive in (con la scatoletta-auto promossa a barriera
anticontagio) oppure i patetici programmi di riaprire le sale
ad occupazione alternata, ci sarà ancora una industria del
cinema? Come si ovvierà (penso soprattutto ai piccoli
distributori indipendenti) al contemporaneo arrivo in cascata
di decine, forse centinaia di film bloccati, non distribuiti o
addirittura non terminati che si saranno accumulati nel lungo
periodo di emergenza? Unica speranza, il medicinale mirato e
risolutivo oppure il vaccino.
Nel frattempo ci penseranno (come peraltro già facevano, e con
risultati anche egregi) i già citati re Mida dello streaming...
E dire che era stato un buon festival.
Con Chatrian che, per quanto ancora impegnato a risolvere il
problema della lingua (con la valida collaborazione della vice
e speaker Mariette
Rissenbeek),
ha mantenuto nei fatti la linea dei suoi predecessori, dando
la precedenza a film ricchi di contenuti morali e sociali, ma
senza perdere d’occhio realizzazioni più sperimentali: valga
per tutte Malmokrog
del
rumeno Cristi Puiu (La morte del signor Lazarescu,
Sieranevada), quattro ore e mezza di dialoghi
filosofici nell’atmosfera checoviana di una villa immersa
nella neve. O meglio ancora Natascha del russo
Khkzhanovsky prima parte (benissimo girata) del folle progetto
DAU (si parla di 700 ore di pellicola) come il nome
dell’istituto al quale negli anni 50 era affidato in Ucraina
la creazione dell’uomo nuovo sovietico (orso d’argento per la
innovazione tecnica).
Quasi del tutto tutto condivisibile il palmares scaturito
dalla giuria presieduta da Jeremy Irons (vi faceva parte anche
il nostro Luca Marinelli) a cominciare dall’Orso d’oro
andato (non c’era quasi gara) a
There is No Evil
dell’iraniano Mohammad
Rasaulof, potente film di denuncia sulla pena di morte nel
paese degli aiatollah. Unico suo serio concorrente un geniale
film indie (non per niente già passato al Sundance) dallo
strano titolo,
Never Rarely Sometimes Always,
comunque premiato con l’Orso d’argento Gran premio della
giuria. E, finalmente, ben due
film
italiani degni di nota: il biopic del pittore naïf Antonio
Ligabue di Giorgio Diritti Volevo nascondermi, con la
straordinaria prova di Elio Germano, non per niente
aggiudicatosi l’Orso d’argento per la migliore
interpretazione maschile
(purtroppo uscito in sala proprio a cavallo del lockdown coi
risultati che si possono immaginare...) e la bella conferma
dei fratelli Damiano e Fabio D’Innocenzo, già rivelatisi
proprio qui a Berlino nel 2018 con La terra dell’abbastanza, e
ora insigniti dell’Orso d’argento per la migliore
sceneggiatura per il loro
Favolacce,
spietato ritratto di un certa piccola borghesia romana:
senz’altro una dei film più originali in concorso. Migliore
attrice, infine, la tedesca Paula Beer, protagonista di
Ondine di Christian Petzold, altro film in odore di Orso
d’oro durante il festival, ma che ci è parso inferiore ai
precedenti
La scelta di Barbara e
La donna dello
scrittore.
Arrivederci nel 2021, virus permettendo....
Giovanni Martini
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