Sebbene i quattro inattesi
Oscar a Parasite (Bong
Joon-ho, 2019) abbiano sancito, quantomeno a livello
mediatico, il riscatto di una cinematografia sinora fin
troppo ignorata dalla nostra distribuzione, non vi era
certo bisogno di attendere gli esiti della kermesse
losangelina per decretare l'indiscusso valore di
un'industria, quella sudcoreana, che, in appena un
ventennio, ha saputo affrancarsi dalla dipendenza dalle
produzioni estere per affermare la vastità e la
ricchezza di una ispirazione che ha pochi eguali
nell'orizzonte del cinema contemporaneo. Disciplinato
dagli ordini di vigilanza statunitensi sin dal termine
della guerra di Corea e forzato, poi, da due dittature
militari, il cinema di Seul ha conquistato un crescente
spazio nel mercato locale e internazionale a partire
dalla fine degli anni 90 in virtù di una quadruplice
concomitanza di fattori: l'avanzare di una nouvelle
vague capace di rileggere in termini personali l'eredità
del cinema taiwanese (si vedano gli esordi di Lee
Chang-dong con Green Fish
e del rohmeriano Hong Sang-soo con
The Day a Pig Fell Into the Well);
l'audacia e la vitalità di investitori disposti a
sovvenzionare produzioni di genere che trovassero radici
nella cultura coreana anziché farsi calco pedissequo dei
modelli occidentali (esemplare
Il buono, il matto e il cattivo di Kim
Ji-woon); il ricorso a una deliberata spregiudicatezza
formale e libertà tematica dopo anni di frustranti
restrizioni (i barocchismi di montaggio in
Oldboy di Park
Chan-wook); la curiosità internazionale per una
cinematografia ancora poco frequentata che raccoglie
tutte le aspirazioni occidentali verso il cinema
asiatico, senza ripetere le forme delle ormai note
produzioni orientali (cinesi e giapponesi, anzitutto).
Al
cinefilo spaesato che volesse approfondire non una
qualche valida cinematografia, ma "la" cinematografia
del nostro tempo, non dubiteremmo, allora, di
raccomandare quella sudcoreana. Se, poi, il medesimo
cinefilo spingesse la sua curiosità al punto di esigere
una lista ordinata di nomi e titoli, eccoci d'un tratto
nei guai. Parte di tanta ricchezza risiede, infatti, nel
deliberato amalgama di istanze divergenti, nel
ricombinarsi di spunti di genere e costrutti autoriali,
in un dialogo incessante tra le pressioni dell'industria
e le spinte della più libera immaginazione. Una
condizione, questa, che ci riporta idealmente ai fasti
del cinema italiano degli anni 70 o alla coeva
maturazione, sull'altra sponda dell'Atlantico, dei primi
moti della New Hollywood. Sebbene si possa tracciare una
comoda linea di demarcazione tra cinema di consumo e
cinema d'arte nell'industria coreana - per cui il
celebrato zombie-movie Train to
Busan (Yeon Sang-ho, 2016) pertiene alla
prima categoria e l'ascetico
Primavera, Estate, Autunno, Inverno... e ancora
Primavera (Kim Ki-duk, 2003) alla seconda - è
altresì indubbia l'inclinazione a un reciproco
sconfinamento. E se, da un lato, i codici del genere -
poliziesco, horror, commedia, azione - informano la
messa in scena di soggetti ambiziosi e fortemente
personali, dall'altro il ricorso a fantasiosi
virtuosismi e la cura dei caratteri infondono un
insolito spessore anche agli intrecci più popolari.
Nel capolavoro Memories of
Murder (Bong Joon-ho, 2003) l'impiego dei
moduli espressivi del noir e del thriller costituisce il
grimaldello con cui il regista squarcia il velo dei
fatti inscenati per darci una sublime ricognizione del
senso di inquietudine, disorientamento e precarietà che
avvolse la Corea al tempo del regime militare di Chun
Doo-hwan; sul versante opposto il talentuoso Na Hong-jin
inframmezza le ritmiche accensioni di violenza nel suo
thriller The Yellow Sea
(2010) con una messa in scena di realistica esattezza
delle difficili condizioni in cui versa la comunità
sino-coreana espatriata in Cina, infondendo a una
generica storia di tradimento e rivalsa un'impressione
di disperata concretezza. O si veda, ancor più
emblematica, la teen comedy campione d'incassi
Conduct Zero (2002)
dell'allora esordiente Cho Keun-sik, che riscatta un
ritratto fin troppo ammiccante e sessista della gioventù
coreana degli anni 80, lavorando brillantemente sullo
slittamento dei generi - dal film di arti marziali al
gangster movie - e la gestione degli spazi per
orchestrare momenti di irresistibile comicità.
Impresa donchisciottesca, dunque, quella
di circoscrivere nel breve spazio di una rassegna un
campione di titoli che dia ragione di una cinematografia
tanto vasta. Senza alcuna pretesa di esaustività, i
quattro film selezionati hanno lo scopo di introdurre lo
spettatore alla varietà di forme, stili e influenze
dell'odierno cinema di Seul, accostando a nomi da tempo
celebrati nei maggiori festival internazionali, altri di
più recente affermazione.
Matteo Pernini |