Così come Lubitch,
Allen,
Kubrick,
Wes Anderson appartiene a una categoria di autori
dall'estetica inconfondibile, tanto che si può
parlare di toutch of Wes: attraverso i suoi
film egli ha creato un universo immediatamente
riconoscibile fatto di una famiglia allargata di
personaggi dall'umorismo impassibile, siano
adulti, bambini o animali, cui i suoi attori
feticcio danno il volto o la voce, di una cura
maniacale per i particolari sia per quanto
riguarda gli arredi che gli abiti eccentrici e di
gusto vintage, di una tavolozza di colori
precisamente definita, di colonne sonore composte
prevalentemente da brani del passato, di una
geometria dello sguardo...
Non a caso il corposo libro-intervista in cui egli
dialoga con Matt Zoller Seitz si intitola proprio
The Wes Anderson Collection.
Questo mondo si respira visitando la Mostra curata
da Anderson con la moglie, Juman Malouf,
costumista e designer, per il
Kunsthistorichsches Museum di Vienna e ora
trasferita a Milano e adattata agli spazi della
Fondazione Prada. Mostra che costituisce un
esempio di come il rapporto tra “Arte” e Cinema
possa, seguendo dei percorsi trasversali,
raggiungere risultati sorprendenti e intelligenti.
La collaborazione di Anderson con la casa di moda
italiana risale al 2012, quando realizzò una serie
di spot per il profumo Candy ed è poi proseguita
negli anni, tanto che egli stesso curò
l'arredamento della Caffetteria della Fondazione
milanese. Il titolo della Mostra prende spunto dal
piccolissimo sarcofago di un topo-ragno del IV
sec. A.C. proveniente da una tomba egizia,
(ricordiamo che la madre del regista era
un'archeologa), che nell'universo andersoniano
potrebbe prendere comodamente posto accanto a
Mr Fox, al cane
Spot, al serpente del
Treno per il Darjeeling e al cane pirata di
Steve Zissou....
Tutto il materiale esposto, più di 400 pezzi
selezionati dai due curatori, proviene dal citato
museo viennese oltre che dal Naturhistorisches
Museum e altre gallerie. Nell'allestimento questi
hanno assecondato unicamente le loro scelte
estetiche, procedendo non secondo criteri
cronologici o geografici, ma per somiglianze
esterne o per analogie, tornando all'idea della
wunderkammer, che ha preceduto la forma
istituzionalizzata del museo. “Anche se io e
Juman non abbiamo né creato né concepito le opere
d’arte esposte in questa mostra, nutriamo l’umile
aspirazione che i raggruppamenti non convenzionali
e l’organizzazione delle opere possano influenzare
lo studio dell’arte e dell’antichità in modi
minori, anche banali, ma comunque significativi
per le future generazioni”.
Nel grande spazio del Podium della Fondazione
campeggia alle pareti una serie di ritratti di
dame e gentiluomini più o meno noti realizzati da autori
più o meno noti, ma tutti caratterizzati da
qualche particolare curioso o inquietante nel
volto, negli abiti, nelle mani... Ma quelli che
colpiscono di più sono soprattutto i ritratti di
bambini, serissimi e abbigliati da adulti, come
venivano dipinti a quei tempi, che non possono non
richiamare alla memoria i tre fratelli
Tenenbaum cristallizzati nei loro abiti
feticcio: la pelliccia di Margot, la tenuta da
tennis di Richie, la tuta da ginnastica di Chas.
Il centro dello spazio è riempito da sette stanze
delle meraviglie, disposte secondo i criteri di un
giardino all'italiana, sette piccole mostre
distinte, con teche ultrapiene, che ci proiettano
in universi magici e fortemente evocativi. Oggetti
di grande importanza, che normalmente vengono
esposti individualmente, sono stati qui
raggruppati in vetrine collettive. Altri sono
stati svelati e posizionati al centro della scena.
Oggetti fatti da mani sconosciute in angoli remoti
del mondo sono mostrati accanto a opere realizzate
da alcuni dei più grandi maestri della storia
dell’arte europea. L’obiettivo è quello di creare
un viaggio estetico e suggestivo, dove visivamente
nulla è lasciato al caso, tutto è ordinato
simmetricamente, rivelando la cura maniacale, ma
anche l'ironia con cui Anderson procede nei suoi
film.
Si va da una stanza che come tema ha il colore
verde e che raccoglie una ventina di tipi di
malachite, vasi a forma di ananas, una Salomé
con testa di Giovanni Battista di Bernardino
Luini del 1525, un costume di scena di Hedda
Gabler di Henrik Ibsen del 1978 preso dal Museo
del Teatro
(Theatermuseum), una rana sotto alcool (Hyla
arborea) presa dal museo di Scienze Naturali, a
una stanza con animali di ogni genere, tartarughe,
uova, felini, gufi, topi , pesci, cani e persino
un granciporro del XVI sec proveniente da Padova,
dipinti, scolpiti, impagliati, mummificati. Una
stanza è dedicata alle mani e quello che queste
possono produrre: vasi, un dito di una statua di
epoca imperiale tardo romana, un busto di Ercole
in bronzo. E poi costumi di teatro e oggetti di
scena, scatole per contenere le corone, come
quella di Rodolfo II, una scatola del gioco domino
con le note musicali, una scatola con due sfere,
teche stracolme di ogni meraviglia, tranne una,
apparentemente vuota, in cui campeggia un solo
oggetto: la valigia per l'uniforme da guerra di un
principe coreano della II metà del XIX sec., che
non sfigurerebbe accanto al set di valigie in
viaggio per
Darjeeling o nella hall del
Budapest Hotel.
Ma a parte i riferimenti espliciti ai suoi film,
come il display scenografico che ricorda le
immagini iniziali di
Moonrise Kingdom, o il
dipinto Boy
With Apple, caricatura dell'artista
rinascimentale, che compare in
Budapest Hotel,
è nell'insieme dell'allestimento, nel modo in cui
gli oggetti parlano tra loro, che i visitatori
smaliziati possono cogliere con divertimento
questa operazione di vera e propria “messinscena”,
che, alla pari di quelle dei suoi film, fa
emergere lo stile unico, inimitabile del regista
texano, uno stile che sa mettere in forma un
sentimento del contemporaneo unito ad una visione
diffusa del mondo.
Cristina
Menegolli |