speciale FESTIVAL DI UDINE |
26 aprile- 4
maggio 2019
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Nei festival europei “importanti”, come
Venezia, Cannes, Berlino, il cinema asiatico è in genere scarsamente
rappresentato, fatta eccezione per la presenza di autori ormai di culto
anche in Occidente, per cui il FAR EAST FILM FESTIVAL di Udine da ventuno anni a questa parte
ha acquisito una rilevanza sempre maggiore nel diffondere in Europa, e
non solo, ciò che la cinematografia di quei paesi ha prodotto negli
ultimi anni.
Il numero degli accreditati professionali, ma
soprattutto degli accreditati “cinephiles”, oltre a quello sempre
numeroso degli spettatori occasionali, basterebbe a testimoniarne il
successo e a riconoscere la validità del lavoro dei suoi organizzatori,
penalizzati quest'anno da un taglio dei finanziamenti, tanto pesante
quanto deprecabile. Ma file interminabili e sale affollatissime
denotano un interesse che va al di là della semplice cinefilia. Certo
l'attenzione dell'addetto ai lavori va in direzione della scoperta di
nuovi linguaggi o di una lettura comparata delle diverse
cinematografie, ma ciò che attira una folla così numerosa è soprattutto
il fatto che il linguaggio universale del cinema permette di penetrare
in mondi così lontani e nello stesso tempo così vicini, ma di cui in
fondo si sa ben poco. L'abbondante offerta e la varietà dei paesi
presenti (Cina, Hong Kong, Indonesia, Giappone, Malesia, Filippine, Sud
Corea, Singapore, Taiwan, Tailandia, Vietnam) contribuisce inoltre a
dissipare l'idea di un “unico” cinema asiatico: le differenze culturali
tra Corea, Cina e Giappone, per citare i paesi più rappresentati, sono
molto più forti di quelle tra i diversi stati europei. Il cinema che
producono è estremamente diverso, differenze e legami risultano chiari
confrontando ad esempio il modo di affrontare lo stesso tema o di
realizzare lo stesso genere.
Il lavoro dei selezionatori si è dimostrato particolarmente attento a
questi aspetti, raggruppando film di diversa provenienza sullo stesso
tema. Quello della vecchiaia, ad esempio, viene sviluppato con estrema
lievità ed eleganza nel bel film giapponese Only the Cat Knows di Kobayashi Syoutarou, dove la sparizione
del vecchio gatto di casa rimette in discussione i rapporti tra due
coniugi, ormai alienati nella ripetitiva routine domestica,
costringendoli a fare i conti col presente.
Più scontato è il modo in cui il tema viene affrontato nel film cinese Crossing the
Border di Huo Meng,
dove nel corso di un viaggio nella bellissima campagna della Cina
meridionale il vecchio nonno contadino ha modo di trasmettere la sua
saggezza al nipotino di città. È il tema della demenza senile il centro
di Romang del regista coreano Lee Chang-geun, che
sceglie un registro drammatico, mentre il suo connazionale Lee Min-jae
punta sul surreale con la divertente commedia The Odd Family: Zombie on Sale,
in cui una strampalata famiglia si imbatte in uno zombie, che morde il
capofamiglia, facendolo ringiovanire: tutti i vecchietti del paese
accorreranno per questa bizzarra fonte di giovinezza, fornendo un
pretesto alla famiglia per organizzare un business.
Vicino a questa tematica si può considerare anche il film opera prima
della regista hongkonghese Oliver Chan (allieva di Fruit Chan)
Still
Human, vincitore del
primo premio della giuria popolare e della giuria Black Dragon,
che dal registro prevalente della commedia passa a toni drammatici ed
emozionali, mescolando realismo e sentimenti in un'alternanza di
sguardo sui problemi sociali e sulla dimensione intima dei personaggi,
nel raccontare il difficile rapporto tra un uomo costretto su una sedia
a rotelle (l'acclamatissimo Anthony Wong) e la giovane badante
filippina.
Per quanto
riguarda i generi, la cui distribuzione all'interno del programma è
apparsa quest'anno più equilibrata, in deciso calo risulta la commedia
giovanilistica, che cede il campo a
tematiche familiari o
intimistiche, svolte
con ironia come nel film giapponese
Lying to Mom di Nojiri Katsumi sugli stratagemmi messi in
atto dai familiari per tenere nascosto alla madre il suicidio del
figlio o spostando sui complessi rituali della cerimonia del tè il tema
delle difficoltà di un'adolescente di trovare il suo ruolo , nel bel
film di Omori Tatsushi Every Day a Good Day.
Anche il genere
thriller, sempre molto presente, sembra voler
superare la staticità e la ripetitività degli ultimi anni, con
l'inserimento di tematiche sociali o politiche, come avviene in
Default
di Choi Kook-hee
e in Dying
to Survive di Wen
Muye. Il primo è incentrato sulla crisi finanziaria del 1997, che
porterà la Corea ad entrare nel FMI, per salvarsi dalla bancarotta, ma
con grave danno per la popolazione. Ha un ritmo incalzante, ma anche
troppo mutuato sui modelli del genere americani. Il secondo, che si è
aggiudicato il secondo premio della giuria popolare, con perfetto
controllo dei tempi e con un'impeccabile costruzione narrativa, capace
di coinvolgere sempre più lo spettatore nelle dinamiche del racconto,
segue il percorso, anche morale, di un piccolo trafficante, che
contrabbanda dall'India dei medicinali contro il cancro, venduti in
Cina dalle multinazionali a prezzi inaccessibili, facendosi via via
sempre più coinvolgere dal problema dei malati e diventando alla fine
un piccolo eroe nazionale.
Molti quest'anno i film
appartenenti al genere
horror, che pare abbia sempre molto successo in
paesi come Giappone, Filippine, Corea, dove sembra addirittura essere
il più proficuo a livello di incassi. Anche qui però si può notare come
i film che si attengono a copioni consolidati, come Konpaku di Remi M Sali (Singapore) o il thailandese
Krasue di Sittisiri Mongkolsiri abbiano ben poco da
dire, mentre la contaminazione con altri generi o lo sconfinamento
nella commedia, come nel già citato The Odd Family: Zombie on Sale,
ridanno nuova linfa a un genere ormai troppo ripetitivo. Il più
interessante in questo senso è il coreano Rampant di Kim Sung-hoon, una saga epica sulle lotte
dinastiche del periodo Jeseon, dove agli intrighi di corte si aggiunge
un'epidemia che trasforma le persone in zombie. Pirotecnico e
divertente mix di zombie movie, dramma in costume e wuxia.
Alla ricca offerta di film in concorso sono
state affiancate quest'anno una retrospettiva sul cinema coreano e una
rassegna di documentari, oltre all'interessante progetto TEN YEARS, nato proprio a Udine nel 2016 in occasione
della proiezione del film hongkonghese Ten Years, da
un'iniziativa del team di Golden Scene e della produttrice Takamatsu,
che hanno voluto estendere il progetto ad altre regioni dell'Asia:
Thailandia, Taiwan, Giappone. Il risultato è dato da tre film a episodi
in cui i registi hanno risposto all'invito di immaginare degli scenari
futuri per i prossimi dieci anni nei loro paesi. E tra questi proprio Ten Years Thailand >> si è rivelato uno dei prodotti più
interessanti e innovativi, dal punto di vista linguistico, di tutto il
festival.
Cristina Menegolli
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Audience Award
Still Human di Oliver CHEN, con Anthony WONG e
Cristel CONSUNJI (Hong Kong, 2018) con una media di 4,53
Dying to Survive di WEN Mu Ye (China, 2018) con una
media di 4,39
Extreme Job di LEE Byoung-heon (Korea, 2019) con una
media di 4,30
Black Dragon Award
Still Human di Oliver CHEN, con Anthony WONG e
Cristel CONSUNJI (Hong Kong, 2018) con una media di 4,34
Mymovies Award
Fly me to the Saitama di TAKEUCHI Hideki (Japan,
2019)
White Mulberry Award for
First time director
Melancholic di TANAKA Seiji, (Japan, 2019)
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Focus
sulla commedia indipendente coreana
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Abbiamo case degli inganni dei sensi,
dove rappresentiamo tutti i generi di giochi di prestigio, false
apparizioni, imbrogli e illusioni e le loro falsità.
Francis Bacon, 1626.
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In un mercato in continuo mutamento, in cui
la fruizione di immagini si moltiplica a dismisura così come i
dispositivi attraverso i quali è possibile goderne, esiste davvero uno
spazio per la produzione indipendente e slegata dalle major? E se c’è,
che attenzione o interesse riesce a riscuotere da parte degli
appassionati, degli esploratori, degli addetti ai lavori o addirittura
dei semplici spettatori che vogliono scoprire una realtà forse più
essenziale ma non per questo meno autentica? Quel che è certo, senza un
necessario approfondimento - per quanto esiguo e sporadico - e la
curiosità pionieristica verso il nuovo, non si potrebbe alimentare
alcuna riflessione, finendo per lasciare ogni possibile domanda in
bilico nella lacunosa e buia fossa dell’indifferenza. Ben venga dunque
la breve e parallela intromissione all’interno della consueta selezione
popolare del FEFF di tre
titoli significativi della commedia indipendente della Corea del Sud
degli ultimi anni.
Nomi sconosciuti, mezzi risicati, ambientazioni intime e tangibili,
attori ispirati, percorsi narrativi fuori dagli schemi e libertà di
sperimentare. Tutti elementi difficilmente riunificabili se non in un
territorio veramente autonomo e svincolato dalle rigide regole del
consumo delle grandi masse. Di fronte a una crisi sempre più profonda
in patria, dove i finanziamenti governativi sono da decenni
completamente azzerati, la scelta di attrarre un pubblico attraverso il
film di genere non appare promettente, soprattutto per la commedia, e,
ancora di più, per una commedia intrisa di elementi avulsi e splenici,
coordinata verso una contemporaneità più inquieta e meno imbellettata.
Un oblio certo e prefigurato dunque, una lotta impari e un destino
amaro. Proprio per questo i registi di questi film meritano di essere
accolti e citati. E dopo aver soddisfatto la visione è ancora più forte
la convinzione che queste storie siano spesso di gran lunga più
intense, brillanti e sediziose dei loro legittimati e ben più
dispendiosi corrispettivi commerciali. 3 quindi i film proposti per questa
incursione:
Passing Summer di Cho Sung-kyu
Saem di Hwang Kyu-il
Coffee Noir: Black Brown di Chang Hyun-sang.
Il primo si svolge interamente
nella bellissima isola di Jeju, e segue le vicende di quattro
personaggi che alloggiano in una pensione sulla spiaggia. Siamo fuori
stagione, e quindi non c’è quasi nessuno in giro. In-gu è arrivato
sull’isola per trascorrervi qualche giorno, ma appare fin da subito
infastidito e a disagio. L’uomo sembra insoddisfatto della sua stanza e
del cibo locale, ma la vera fonte del suo fastidio diventa palese in
seguito: In-gu è l’ex fidanzato della moglie del proprietario della
pensione. Non gli interessa la vacanza – ma vuole affrontare la sua ex
e ottenere alcune risposte sul loro passato. Quella che sembra
destinata a diventare una situazione profondamente problematica invece
cambia improvvisamente tono, a causa di una coincidenza. Ci sono altre
due donne che soggiornano in quella pensione: Chae-yoon e Ha-seo. La
civettuola Ha-seo, attirata in questo posto dalla sua fama di luogo per
surfisti, è delusa di scoprire che in questo periodo dell’anno non c’è
molta gente in giro. Chae-yoon è più introspettiva e sembra felice di
rilassarsi e fare la turista per caso, ma avrà una sorpresa inattesa:
Jeong-bong, il proprietario della pensione, lavorava con lei a Seoul
qualche anno prima. E, dal modo in cui si comportano l’uno con l’altra,
sembra che non fossero solo semplici colleghi.
Il secondo ci porta a conoscere Du-sang, un ragazzo
ossessionato dal suo primo amore, Saem. Ha perso ogni contatto con lei
da diverso tempo, ma non riesce ancora a cancellarne il ricordo e ora
che ha da poco compiuto vent’anni non pensa ad altro che a ritrovarla.
Sentendo che potrebbe essere all’università a Seoul, vi si reca e si
trasferisce nella camera in affitto di un suo amico. Ma c’è un
problema: un incidente d’auto gli ha lasciato la prosopagnosia.
Chiamata anche “cecità fisionomica”, è un deficit che impedisce al
paziente di riconoscere i tratti di insieme di un volto – anche se
altri aspetti del suo riconoscimento visivo rimangono inalterati. Per
certi versi Du-sang può condurre una vita del tutto normale, ma questa
malattia rende il suo obiettivo di individuare Saem particolarmente
difficile. Nei giorni che si susseguono incontrerà tre donne, ognuna
delle quali si relazionerà con lui (o cercherà di approfittare di lui)
in modi diversi. Ma ai suoi occhi tutte somigliano a Saem.
Il terzo invece ruota attorno all’esclusiva
caffetteria Black Brown, destinata alla chiusura quando il governo
nazionale dichiara il caffè pericoloso per la salute perché dà forte
assuefazione. Vengono approvate leggi che lo mettono al bando e si
stabilisce anche una data oltre la quale chiunque venda o beva caffè
sarà arrestato e severamente punito. Ma il Black Brown è
gestito da veri amanti del caffè che non hanno alcuna intenzione di
ottemperare a leggi che considerano ingiuste. E, mentre stampano nuovi
menù con una selezione di tè e vari tipi di bevande aromatizzate alla
frutta, iniziano zitti zitti la preparazione di un’attività clandestina
che verrà condotta a tarda notte e in segreto.
Pur godendo ognuno di questi titoli una propria specificità ed esiti
più e meno riusciti - Passing Summer colpisce per la delicatezza e lievità
nell’assecondare la fragile emotività della gestione dei ricordi e
della solitudine, mentre, purtroppo, Coffee Noir: Black Brown non riesce in definitiva a dare un corpo
unitario alle varie declinazioni del suo amalgama - quel che emerge è
la consapevolezza dell’inganno della vita e della rappresentazione che
ne consegue da parte dell’operare scopico. Nel continuo lancio e
ritorno del desiderio, gli autori indipendenti appaiono molto
consapevoli della limitatezza del concetto di realtà di fronte allo
sconfinato e insidioso dispositivo pulsionale cinematografico.
Quel che ne risulta è un innesto nel
perfetto quadro realistico della messa in scena: la perseveranza della
ricerca dell’amore perduto da parte del protagonista di Saem appare sulla carta uno spreco energetico
inutile e noi stessi, nel cercare di seguirlo, entriamo in un vortice
di confusione nel quale ogni nuovo incontro con una ragazza ha l’aria
di un deja-vu. Cosa stanno dunque vedendo i suoi occhi? Quale
consapevolezza possiamo avere rispetto a ciò che ci appare e crediamo
di sperimentare?
Allo stesso modo, il mondo di Coffee Noir: Black
Brown appare in tutto
e per tutto uguale al nostro, eppure nasconde qualcosa di occulto,
regole pronte ad esplodere e una voglia di ribellarsi all’imposizione
della normalità. Il regista sembra voler raschiare quella cortina di
immutabile realismo e far emergere l’illusione che essa tende a celare.
Illusione e falsità che i protagonisti di Passing Summer hanno così candidamente imparato a governare
e soffocare, finendo per divenire una sorta di rappresentazioni
rispettabili delle loro ambiguità.
“È possibile conoscere come è fatta la
realtà indipendentemente dalla mediazione della nostra mente? Possiamo
prescindere dalla condizione di esseri umani conoscenti e storicamente
determinati ed elaborare un pensiero dell’assoluto? È lecito sostenere
di avere accesso a quello che gli anglosassoni definiscono il “great
outdoor”, il grande fuori, ovvero quello che è esistito, esiste ed
esisterà indipendentemente dal nostro stare al mondo? “.
Non è di certo a queste colossali domande che questi film cercano di
dare direttamente una risposta. Ma attraverso il cinema è possibile
operare una formulazione del linguaggio che travalica la mera
rappresentazione di una storia per farsi largo verso diagonali meno
codificate e proprio per questo, come spesso accade nella scarsezza di
mezzi, la scrittura emerge come incombenza sostanziale e vivifica:
proprio nei dialoghi concisi e sommessi e nello scambio comunicativo
tra i personaggi avviene quel passaggio fondamentale di scarto verso la
banalità a favore di una ricognizione di un’alterità direzionale verso
scenari ipotetici pronti a fecondare dubbi e insistenze teoretiche e
morali. Non a caso ogni epilogo in queste commedie non pone alcuna fine
e non risponde ad alcuna domanda, ma anzi, apre il discorso ancora di
più, come a volerci dire: “è còmpito vostro ora fare i conti con
voi stessi e la vostra mimesi”.
Secondo la psicoanalisi lacaniana il soggetto del desiderio inconscio
non risiede nei propri istinti biologici e corporei che la civiltà non
riesce a reprimere, ma si costituisce in uno spazio di incertezza
linguistica dove il significato di una serie di significanti è incerto
e lascia spazio a una domanda: cosa vogliono dire queste parole? Che
cosa volevo dire io con queste parole? È come se nelle nostre stesse
parole noi interrogassimo la natura del nostro desiderio più che
verificare la loro adeguazione a un’intenzione preesistente il
linguaggio. I corpi dei protagonisti dei film appaiono prima di tutto
come organismi interroganti. E il loro riflesso si spinge oltre lo
schermo. Oltre la limpida narrazione di qualche scorcio di vita. Una
vita qualsiasi. Senza eroi, senza vincitori, senza compiacimento. Ma
non per questo priva di un naturale intimo sorriso.
Alessandro Tognolo
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