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TORINO
FILM FESTIVAL |
24 novembre - 2 dicembre 2017
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L’appuntamento
con il Torino Film Festival
porta con sé la certezza e il piacere del ritorno in un luogo
prediletto e rassicurante. La struttura consolidata delle sezioni in
cui è suddivisa l’offerta di film, unita al piacere di trovare nomi
di autori diversissimi tra loro e che - con le dovute differenze -
sono accumunati da uno spirito combattivo e ribelle di continua
interlocuzione verso il mezzo cinematografico, rendono Torino un
punto di incontro quasi irrinunciabile per chiudere l’anno e
prospettare una sorta di valutazione di una stagione
(cinematografica) che si è conclusa e quella che si compirà a
venire.
Il
TFF
si presta come di consueto a traiettorie tra le più differenti tra
loro e il destino dello spettatore sta proprio nella scelta e
nell’occasione offerta dal palinsesto.
Da qui, percorrendo le varie sezioni (e scoprendo in
Festa Mobile
lo spendido
I segreti di Wind River!) si può
arrivare ai territori che più hanno
caratterizzato la direzione di Emanuela Martini, ovvero la sezione
After Hours,
con le sue venature horror, dark, thriller e di genere che la
compongono e che ben si amalgamano con l’atmosfera occulta della
città che le ospita. Immancabili dunque gli zombi, presenti in
Les affamés
del canadese Robin Aubert, nel quale di racconta la rincorsa alla
sopravvivenza dei pochi umani rimasti nelle campagne del Québec, in
un’ambientazione rarefatta e tra ricordi strazianti, e nel film
irlandese
The Cured
di David Freyne, una storia post-epidemia zombie, sul tormentoso
reinserimento degli infettati "curati", ma ossessionati da flash
delle stragi compiute e tenuti a distanza dai "normali"
sopravvissuti.
Oltre a zombie, fantasmi, tanto sangue, due film italiani fuori
dagli schemi (Favola
di Sebastiano Mauri e con Filippo Timi e
Riccardo va all'inferno
di Roberta Torre, rilettura contemporanea di Riccardo III),
una commedia cinefila, ironica, demenziale e di certo
indimenticabile,
The Disaster Artist,
prodotta, diretta e interpretata da James Franco, nei panni di Tommy
Wiseau, una sorta di Ed Wood del terzo millennio, autore nel 2003 di
The Room, giudicato talmente brutto da essere diventato un
cult.
La vera certezza è però Sion Sono, la cui retrospettiva
iniziata nel 2011 si arricchisce di anno in anno di nuovi capitoli
dal carattere imprescindibile, presente con
Tokyo Vampire Hotel,
riduzione cinematografica di una serie televisiva prodotta da Amazon.
E poi c’è il piacere di imbattersi in produzioni indipendenti piene
di passione e tensione, come
Most Beautiful Island, scritto diretto
e interpretato con fierezza e umiltà dall’attrice spagnola Ana
Asensio in trasferta oltreoceano.
Alessandro Tognolo
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Emanuela
Martini, nell'anno di scadenza del suo mandato triennale, che
fortunatamente è stato rinnovato, ha voluto lasciare un segno
personalissimo con due iniziative che portano chiaramente la sua firma:
la retrospettiva dedicata a Brian De Palma e
Non dire gatto...
La
sezione, che ha trovato il suo completamento nella divertente
mostra
Bestiale! Animal Film Stars allestita
al Museo del Cinema alla Mole Antonelliana, prevedeva la proiezione di sei
film con gatti protagonisti: dall'esilarante
Rhubarb (1951) di Arthur Lubin, con il gatto divo
Orangie (interprete indimenticabile anche di Colazione da Tiffany),
al cupo Black Cat (1981) di Lucio Fulci, allo
sperimentale Chat Ecoutant la
Musique (1990) di Chris Marker,
al più noto Bell, Book and
Candle (Una
strega in paradiso-1958) di
Richard Quine, da cui è tratta la splendida immagine
del manifesto del Festival.
Per quanto riguarda la
retrospettiva su Brian De Palma,
va detto che è sicuramente una delle più
complete e curate (sul regista di Newark la Martini ha redatto per
l'occasione una preziosa monografia) che ha offerto al pubblico la
possibilità di rivedere i suoi grandi capolavori e di scoprire film
inediti in
Italia (anche il suo ultimo lavoro Passion, presentato
alla Mostra di Venezia, ma che da noi non ha mai trovato distribuzione)
o che risalgono ai suoi primi approcci col cinema. In tutto ben 32
titoli con due memorabili rarità,
Woton's Wake e Murder à la Mod, che appartengono agli esordi di De Palma.
Un regista, che non ha
bisogno di presentazioni, ma per il quale vale la pena di riportare qui
la perfetta e condivisibile fotografia, che ne fa
Emanuela Martini nel catalogo del Festival.
“Ha materializzato paure, incubi, ossessioni frammentate; ci ha
trascinato dentro i labirinti dell’immaginario collettivo novecentesco;
ha dato corpo ai fantasmi del nostro inconscio: Brian De Palma, uno dei
maggiori autori emersi dal cinema americano anni Settanta, maestro di
stile, erede di Hitchcock (ma anche grande ammiratore di Godard ed
Ejzenštejn), sempre in bilico tra un’anima di artista indie e le regole
del gioco che Hollywood detta. Newyorkese, amico e sodale di Martin
Scorsese (con il quale condivide passioni da cinéphile come quella per
il cinema di Michael Powell), De Palma ha visto ingiusti insuccessi
trasformarsi in cult movies (Il fantasma del palcoscenico), ha
per primo realizzato un film da un romanzo di Stephen King (Carrie -
Lo sguardo di Satana), ha fatto emergere dalla trama dei film di
genere la filigrana delle teorie sulla visione e sull’eccesso di
immagini dal quale siamo sommersi. Ha diretto alcuni dei thriller più
belli degli ultimi quarant’anni (Vestito per uccidere, Blow Out),
ha dato vita a due giganteschi maudit del gangster movie (Tony Montana
in Scarface e Carlito Brigante in Carlito’s Way, epiche
interpretazioni di Al Pacino), ha ricreato le atmosfere più insidiose
del noir (Femme fatale, Black Dahlia, dal romanzo di
James Ellroy), ha registrato le atrocità indotte dalle guerre (Vittime
di guerra, Redacted). Sempre rielaborando una lingua che è
tra le più raffinate e consapevoli del cinema hollywoodiano, sempre
scavando nell’intricata rete degli sguardi, umani e artificiali, delle
riproduzioni, dei riflessi, dei suoni, delle fantasie, dei sogni dentro
ai quali ci perdiamo quotidianamente.”
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Un giusto tributo ad uno degli autori più interessanti e controversi
emersi dalla cosiddetta “Film generation” degli anni '70', che, dopo
essere stato osannato dalla critica americana, ha subito, soprattutto
nell'ultimo decennio, un ostracismo, che gli ha creato non poche
difficoltà anche a livello di produzione, tanto è vero che il suo
ultimo film è stato prodotto e girato in Germania.
Cristina Menegolli
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FESTIVAL
DI BERLINO |
15 - 25 febbraio 2018
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Una catastrofe. Non sembri esagerata la parola
per definire la Berlinale di quest'anno, la sua giuria e il suo
Palmares.
A cominciare dall'Orso d'oro (col sovrappiù del premio opera prima!) a Touch
Me Not della
rumena (ma stabilita da tempo in Germania ) Adina Pintilie. Un film che
ti lascia di stucco, classificato all'ultimo posto da quasi tutte le
giurie internazionali da Variety o Hollywood Reporter.
Una specie di cinema-verité in ritardo, con tanto di regista
che ogni tanto salta al di là della macchina da presa e comincia a
recitare. Un polpettone verboso e inguardabile sul tema (sembrerebbe)
del diritto al sesso (liberatorio of course) per anziani, disabili e
altro. Con diritto a nudi espliciti, masturbazioni, gigolo,
travestitismi, bondage e chi più ne ha più ne metta...
Pensiero cattivo: il non accreditatissimo Tom Tykwer (la sorpresa di Lola corre
nel 1998, ma poi?), messo a capo della giuria dal direttore uscente
Dieter Kosslick, voleva per forza favorire un film tedesco? Ma allora
aveva solo l'imbarazzo della scelta, tra il delizioso In den Gänge (Nei corridoi) dell'esordiente Thomas Studer, o il
controverso film di di Philip Groning
My Brother's Name is Robert and He Is an Idiot, a cui non si può non riconoscere la
padronanza di linguaggio cinematografico e un'ambizione genuinamente
autoriale.
Un Festival già discutibile nelle scelte:
come tralasciare il cinema rumeno che proprio qui a Berlino ha mostrato
alcune delle sue cose più belle, da Il caso
Kerenes ad Aferim; e come giustificare la presenza in concorso
di un film demenziale come Damsel dei fratelli Zellner che, nel vano tentativo
di "destrutturare", di svelare il meccanismo del racconto western, cade
e si compiace per quasi due ore di una comicità greve da comica finale?
O del francese Eva, che riesce quasi a far cadere nel ridicolo
anche Isabelle Uppert?
Ma cerchiamo di consolarci coi film salvabili
e anche buoni, visti o intravisti nell'accumulo delle giornate
berlinesi: a parte
Isle
of Dogs, lo stop-motion
di Wes Anderson (dicono straordinario...) e che probabilmente ha
sofferto ancora una volta del pregiudizio festivaliero contro
l'animazione essendosi dovuto accontentare del premio per la miglior regia, ecco l'Orso
d'argento-Gran Premio della Giuria
a Mug della regista polacca Malgorzata Szumowska,
onnipresente beniamina del festival (nel 2016 era suo Corpi,
arrivato in Italia garzie alla distribuzione indipendentepoi
distribuito in Italia da Cineclub International ). Mug è
un nuovo ritratto 'gridato' di una Polonia ormai pericolosamente
avviata verso una deriva di oltranzismo cattolico. Al centro della
storia, la costruzione di un Cristo in cemento armato "più grande di
quello di Rio de Janeiro"! Ancora, tra le cose apprezzabili, il
brasiliano Las
herederas (premio alla
miglior attrice Ana Brun) e il vigoroso franco-belga La prière, orso d'argento meritatissimo al giovane Anthony Bajon.
Ma poi? D'accordo che Don’t Worry, He Won’t Get Far on Foot, pur ridando tono alla filmografia di Gus Van Sant, non era certo in corsa per un qualche riconoscimento ma lo straordinario Dovlatov di Alexey German Jr, il più meritevole
del massimo trofeo, si è dovuto accontentare del premio per costumi e
ambientazione e Transit di Petzold, altro tedesco di indubbia
qualità, non è stato preso in considerazione dalla giuria. Che dire infine dell'unico
italiano in gara, Figlia mia di Laura Bispuri? Poco...
veramente poco, in tutti i sensi.
E intanto (per guardare avanti) sulla stampa tedesca e internazionale
fioccano le polemiche e i consigli per il nuovo direttore (ancora
sconosciuto) che entrerà nel 2020: dalla necessità di ridurre le
sezioni, ormai proliferate al numero monstre di 14 (Venezia e Cannes ne
hanno quattro o cinque), alla richiesta di una maggiore 'leggerezza'
nella scelte e. perché no, di una maggiore attenzione al lato glamour
della festa (e attenzione anche al boom del mercato,che rischia di
fagocitare il concorso...). In pratica, un limite alla 'political
correctness', che rischia di diventare pesante e controproducente.
Come dimostra il fatto che agli Oscar e Golden Globes vari,
i film provenienti da Berlino sono sempre più rari!
Giovanni Martini
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uscita nazionale: 5 aprile - 24 aprile
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FAR EAST FILM FESTIVAL
(Udine)
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20 - 28 aprile 2018
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Ma
cosa ci fanno gli scombinati zombie giapponesi di Ueda Shinichiro sul
podio dei vincitori di questa 20° edizione del
FEFF
assieme ai pluri premiati autori coreani? Così come il clima
insolitamente soleggiato, quest'anno anche l'esito della premiazione si
può dire sorprendente e nel contempo rivelatore della duplice anima del
pubblico del Far East (è noto che a Udine non c'è giuria, ma a
decidere i premi sono i voti degli spettatori).
Vincitore è risultato il film coreano 1987: When The Day Comes
di Jang Joon-hwan (Gelso d’Oro e Gelso Nero, il premio
degli accreditati Black Dragon). Al secondo posto troviamo One
Cut Of The Dead di Ueda Shinichiro e, al terzo, ancora la Corea con
The Battleship Island di Ryoo Seung-wan. I
web-giurati di MYmovies hanno scelto The Empty Hands, delicato
film sul karate, del mito hongkonghese Chapman To. Sudcoreano, infine,
anche Last Child di Shin Dong-seok, Gelso Bianco per la
migliore opera prima.
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Il trionfo della Corea, salutato dagli organizzatori come
un auspicio se non un'anticipazione di una futura riappacificazione del
paese, risponde alle scelte di un pubblico, che privilegia l'impegno
politico e sociale o la spettacolarità di una ricostruzione epica di
eventi del passato: sia 1987:
When The Day Comes sia
The Battleship Island rievocano infatti due tragiche pagine della
storia, collocate, l'una nel 1987, quando un pubblico ministero indaga
sulla morte per tortura di uno studente universitario, ucciso durante
le manifestazioni contro la dittatura di Chun Doo-hwan e l'altra nel
1944 quando, durante la dominazione giapponese, si verificò una strage
di civili innocenti, ricostruita da Ryoo Seung-wan, grazie ad un budget
stellare, puntando sull'impatto epico, spettacolare.
A completare il trionfo coreano il premio a Last Child,
dramma a forti tinte emozionali sul rapporto tra due genitori, che
hanno perso il figlio e l'amico che ha cercato di salvarlo
dall'annegamento.
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Se un filo di
coerenza lega la predilezione assegnata a questi tre film, del tutto
fuori dal coro e perciò sorprendente, risulta il secondo premio
assegnato al lavoro di Ueda Shinichiro, One Cut Of The Dead (Il piano sequenza dei morti viventi), che, pur
essendo stato proiettato ad un'ora notturna, che ha sicuramente
limitato il numero di presenze in sala e quindi di votanti, ha ottenuto
una marea di consensi, specchio dell'entusiasmo di quegli spettatori,
che rappresentano proprio quella seconda anima che da questo festival
si aspetta scelte radicali e innovative, come spesso succedeva in
passato. Il film, coi toni della commedia, ribalta il genere zombie in
una riflessione sul cinema stesso e sul rapporto realtà
rappresentazione, in modo del tutto originale e fuori da qualsiasi
schema. In una fabbrica abbandonata un regista piuttosto isterico sta
girando in un unico piano sequenza un film sugli zombie, quando dei
veri zombie irrompono sul set. Nonostante la carneficina, il regista
continua a girare, mentre attori e membri della troupe vengono
trasformati in veri morti viventi, cosicché il film avrà come
spettatori solo gli zombie stessi: l'oggetto della visione ne diventa
il soggetto.
Come si era notato già nelle precedenti ultime edizioni del festival, i
film di genere, che peraltro costituiscono la marca distintiva di
questa manifestazione, rivelano segni di innegabile stanchezza e
obsolescenza, con l'eccezione di quelli, come One Cut Of The Dead,
che ne ribaltano gli schemi o che se ne pongono ai margini. Al
contrario dell'indonesiano Satan's
Slaves, di Joko Anwar, che
purtroppo si è preso sul serio con dei fantasmi, che hanno solo
suscitato l'ilarità del pubblico.
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Come aveva malinconicamente dimostrato
Kitano in Outrage-Coda, visto a Venezia, il gangster movie e il noir, sono quelli che maggiormente risentono di
una ripetitività, che non ha più niente da dire, rispetto ai capolavori
del passato.
Deludenti si sono rivelati
The Blood Of Wolves di Shiraishi Kazuya e il tanto atteso A Special Lady di Lee An-gyu, mentre una piacevole sorpresa
sono stati The Chase di Kim Hong-sun (in cui un odioso pensionato
indaga su una serie di misteriose morti e sparizioni) e soprattutto Smaller And Smaller Circles del filippino Raya Martin, che qui si misura
con un genere per lui inusuale, riuscendo tuttavia a far emergere le
contraddizioni della società del suo paese, divisa in caste e governata
da corruzione, pregiudizi e ipocrisia, attraverso il racconto preciso e
rigoroso di un'indagine condotta da due preti sulle tracce di un
serial-killer di bambini.
Altro genere sofferente di afasia e generatore di noia è il cosiddetto
“teenagemovie”, che pure nel passato aveva prodotto degli esperimenti
interessanti. Unica eccezione
Bad Genius del
thailandese Nattawut Poonpirya, che racconta, con un ritmo da thriller,
i vari metodi inventati da una geniale studentessa liceale, per vendere
ai compagni la soluzione dei compiti e dei test.
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Nell'ambito della
ricostruzione storica si colloca, assieme ai vincitori, anche il film
hong-konghese No.1 Chung
Ying Street di Derek Chiu, uno dei più interessanti e
belli della rassegna. Il regista ricostruisce due momenti importanti
della storia della sua città, seguendo il percorso di una giovane
studentessa di architettura coinvolta prima negli scontri di operai e
studenti contro il dominio britannico a favore di un passaggio alla
Cina di Mao (1967) e poi nelle lotte contro la speculazione edilizia di
un futuro prossimo (2019). Senza enfasi o sentimentalismo Chiu riesce
comunque, grazie anche alla splendida quanto malinconica fotografia in
bianco e nero, a comunicare allo spettatore la sua empatia nei
confronti della storia della sua città.
Altri due film che meritano di
essere segnalati sono Night
Bus dell'indonesiano Emil
Heradi e il giapponese The Scythian Lamb di Yoshida Daihachi.
Il primo apparentemente rientra nello schema classico che prevede
l'incontro e le interrelazioni tra vari personaggi costretti a
convivere in uno spazio chiuso, un autobus in questo caso. Ma man mano
che il viaggio verso Samper si inoltra in una zona di conflitti
interni, in seguito agli incontri-scontri con l'esercito, i mercenari e
i rivoluzionari, esso diventerà una discesa nell'abisso, facendo
esplodere le dinamiche interpersonali in una tensione crescente, che
inchioda lo spettatore, grazie al pieno controllo del ritmo narrativo
del regista.
Ammirevole soprattutto per la perfetta
architettura della sceneggiatura è The Scythian Lamb, un film costruito attorno al giovane protagonista
interpretato dall’idolo pop e attore Nishikido, che, su incarico del
piccolo comune in cui vive, deve accogliere e far ambientare dei nuovi
residenti destinati a ripopolare il paesino. Sennonchè scoprirà ben
presto che si tratta di assassini che godono della libertà sulla
parola. Yoshida si rivela un maestro nella leggerezza con cui sviluppa
i delicati rapporti che si vengono ad instaurare tra i personaggi. Un
film del tutto fuori da qualsiasi schema, pur essendo tratto da un
manga e capace di stupire e di coinvolgere emotivamente lo spettatore,
trasportato da scenari da thriller a drammi sociali, ad atmosfere degne
di Black Mirror.
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Il
FEFF di Udine si conferma sempre come
un'occasione da non perdere e fa piacere constatare che l'innegabile e
mai abbastanza elogiata capacità organizzativa dei suoi promotori
assieme alla cortese e generosa ospitalità (arricchita quest'anno dai Ramen
dello chef Luca Catalfamo) sono state premiate dalla presenza di 60.000
spettatori, di cui 1555 accreditati da tutto il mondo. Anche se, come
sempre purtroppo, sono proprio i grandi quotidiani italiani che hanno
dato poco o nessuno spazio all'evento. Non resta che darsi appuntamento
a Udine, per Far East Film Festival 21, dal 26 aprile al 4 maggio 2019.
Cristina Menegolli
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